Antenati cardatori

Potrà sembrare strano, ma per alcuni secoli e fino ad arrivare a pochi decenni fa, l’economia di Cerqueto si è in gran parte retta grazie ad un mestiere che oggi è del tutto scomparso e che molti neppure sanno sia mai esistito: quello del cardatore di lana.

Chiunque sia originario di Cerqueto,  ha quasi sicuramente almeno un antenato cardatore, detto anche ” lanaro”. Uno cioè che, insieme ad altri compagni di viaggio, emigrava “per regni esteri” (lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana ecc.) alcuni mesi nell’arco dell’anno, camminando a piedi  con sulle spalle i “ferri” per cardare la lana, valicando i Monti della Laga e poi battendo a tappeto tutti i paesi che incontrava lungo i tragitti sperimentati negli anni, alloggiando, lavorando, mangiando e dormendo in quelle case dove i proprietari avevano necessità di cardare la lana per ricavarne successivamente tessuti ed abiti . Si esprimevano con uno strano gergo, “la trignine”, inventato per parlarsi ed accordarsi tra compagni di lavoro, senza farsi capire da chi li ospitava.

La vocazione di Cerqueto per la cardatura della lana trae forse origine da quella, ancora più vivace, del vicino paese di Pietracamela: qui, a metà Ottocento, quasi il 70% della popolazione operava nel campo della lana. Tra i due paesi esistevano infatti numerosi scambi indotti dalla vicinanza e da reciproci bisogni e vantaggi. Si trattava poi di paesi, come del resto tutti gli altri della montagna abruzzese, dove l’attività della pastorizia era molto fiorente e lo erano naturalmente anche tutte le attività ad essa connesse.

I numerosi cardatori di Pietracamela si spingevano comunque più lontano rispetto ai cardatori cerquetani. Arrivavano anche in Emilia. Quelli di Cerqueto si recavano soprattutto nelle Marche, in particolar modo nelle provincie di Ascoli Piceno e Macerata. Si dirigevano anche, ma in misura minore,  nell’Aquilano e a sud, verso le attuali provincie di Pescara e Chieti. Nella provincia di Chieti, tuttavia, c’era un’altra area, la valle dei fiumi Aventino e Verde, con i centri di Palena, Taranta Peligna, Gessopalena, Torricella Peligna, Lama dei Peligni e, soprattutto, Fara S. Martino, nella  quale era sviluppata la lavorazione della lana e la produzione dei tessuti di lana. I cardatori di queste zone raggiungevano, oltre il basso Abruzzo, la zona tirrenica dello Stato Pontificio, il Molise,  il foggiano e il napoletano. Si può quindi dire che da Pietracamela, Cerqueto e Fara S. Martino, per diversi secoli, sono partiti lavoratori che hanno reso possibile la tessitura domestica dei panni di lana in larga parte del centro-nord e del centro-sud dell’Italia.

Il periodo lavorativo andava normalmente da settembre a fine aprile, ma poteva essere anche variabile e dipendente  dagli  impegni che il cardatore aveva nel proprio paese. Poteva durare anche un solo mese oppure più frequentemente fino a Natale oppure essere intervallato da ritorno  e ripartenza.   Il lavoro era sicuramente molto duro, nonostante nel nostro paese il termine “lanaro” indichi una persona con poca voglia di lavorare. Durante i continui spostamenti da una casa all’altra e da un paese all’altro venivano quasi annullati i contatti con la propria famiglia: il cardatore poteva sempre spedire una lettera da uno qualsiasi degli uffici postali che incontrava lungo il suo cammino, ma non era vero il contrario, perchè la famiglia non poteva assolutamente conoscere in quale luogo far recapitare la lettera.

In genere un cardatore, dopo anni di lavoro, tendeva a fare sempre lo stesso tragitto, perché si era creato una clientela di fiducia e pian piano si integrava in quelle stesse comunità nelle quali prestava la sua opera. A volte in quei posti trovava pure l’amore ed in qualche caso si sposava e si stabiliva nel paese della moglie, senza fare ritorno. In altri casi era invece la moglie a seguirlo a Cerqueto per risiederci. Qualche anno fa ad esempio, Vincenzo Pisciaroli  incontrò a Cerqueto  una signora che, insieme al marito, era venuta da Camerino con lo scopo di visitare per la prima volta il paese del nonno. Il cognome della signora era Di Matteo.

I miei nonni, nati ad inizio Novecento, sono stati entrambi cardatori. Avevano iniziato da bambini: nonno Michele era partito per “imparare a fare la lana” quando aveva appena nove anni, con  “ferri” appositamente costruiti per la sua giovane età.  “L’insegnante” era Domenico, il padre di Superna Di Cesare, con il quale mio nonno poi lavorò per molti altri anni, anche quando era diventato adulto. Domenico sposò, in seconde nozze, una donna marchigiana, Maria Gallope, e la portò a vivere a Cerqueto. Alcuni la ricordano come una donna molto religiosa.  Anche nonno Giuseppe era bambino quando iniziò a lavorare la lana. Se trovava qualcuno disposto ad ascoltarlo, poteva parlare per ore di tutte le vicende che gli erano occorse negli anni o che gli erano state riferite da altri. Alcune avevano anche un alone magico e leggendario. Un anno, quando erano ormai entrambi anziani, in famiglia li accompagnammo con la macchina a ripercorrere quei luoghi. Di ogni paese avevamo sempre molte cose da dire.   Quando arrivammo al paesino marchigiano di Pito, nonno Giuseppe si avviò a passo sicuro lungo una stretta via in salita, senza esitazioni, proprio come se stesse percorrendo una familiare strada di Cerqueto, e poco dopo tornò e ci presentò una signora, contentissima per aver rivisto un amico di vecchia data. Rimasero a parlare per un pò di tempo delle persone e dei fatti del paese.  A sera, quando tornammo, sembrava di aver fatto un viaggio lunghissimo, eppure avevamo visitato solo una minima parte dei posti da loro conosciuti.

Tutti i cardatori infatti si spostavano e camminavano senza sosta per trovare lavoro.

I secolari, continui spostamenti da un paese all’altro, avevano messo in contatto cardatori di paesi e circondari diversi e si era venuta così a creare una vera e propria particolare “cultura”, fatta di abitudini simili, di saperi e competenze specifiche, di credenze e tradizioni che in qualche modo accomunavano tutti i cardatori, nonostante le diverse provenienze. Un lampante riscontro  di questo  si ha nel tipico linguaggio da loro utilizzato, la “trignine”. Si trovano infatti  notevoli  similitudini tra quello parlato a  Fara S. Martino    e quelli parlati a Pietracamela e Cerqueto. Ad esempio la lana veniva chiamata “carpènte” sia a Cerqueto che a Fara, così per la chiesa “santàuse”, il parlare “tàttàvelle”, la fame “stècchje”, bello “dìstìc” , brutto “leteje” , il maiale “carùfe” e così via. Altri termini non erano proprio uguali, ma mantenevano inalterato il metodo utilizzato per  idearli. Per gli animali ad esempio si sceglieva  un loro peculiare tratto fisiognomico o un loro tipico atteggiamento. La gallina ad esempio veniva chiamata “piccanterre” dai cardatori di  Cerqueto e “ruspòse” da quelli di Fara. Stessa cosa per Pietracamela e Cerqueto: i fagioli erano chiamati “pagànise” a Pietracamela e “pagànighe” a Cerqueto. Nel nostro paese  dire “pè stà scurenze la zampre stà a liccì paganighe e terramine” significava “per questa sera la padrona sta preparando fagioli e maccheroni”, mentre a Fara dire “Tope stellòne cotalònghe, ti’ la rasche pe càrpene” significava “buongiorno signora, tieni il lavoro per lo scardalana?”.  La stessa parola “trignine”  deriva probabilmente dalla strada Trignina che collega l’Abruzzo al Molise  ed il cui percorso costeggia uno dei grandi tratturi attraversato da innumerevoli greggi  nei secoli passati.

Tutta la popolazione, sia di Fara che di Pietracamela o di Cerqueto, capiva ed in parte parlava questo gergo, anche coloro che non erano propriamente cardatori, in quanto questi ultimi ne rappresentavano comunque una rilevante frazione e le loro esperienze e conoscenze erano diventate saperi collettivi.Così, molti di questi termini sono rimasti nel nostro dialetto e spesso vengono tuttora inconsciamente utilizzati, come ad esempio “la-lu zàmpre”  per “ la signora” o “il signore” (specie quando non conosciuti)  oppure “nu scàndrije” per un bicchiere pieno di vino o birra e  “s’àccirite” per dire “si è ubriacato”, oppure ancora “m’brische e m’brasche” per la particolare ora del tramonto quando ci si vede e non ci si vede o “che stì à tàttàvellà” per “ che stai dicendo?” e così di seguito. La Pro Loco ha un piccolo elenco dei termini di questo gergo, raccolti un po’ alla volta in questi decenni, quando purtroppo anche gli anziani li avevano ormai in parte dimenticati.

Questo mestiere si mantenne florido fino al primo dopoguerra, quando lo sviluppo  dell’industria tessile, indotto dal miglioramento dei macchinari e dei processi produttivi, lo oscurò sempre più, fino a relegarlo nelle sole zone rurali. Ma più tardi, la miseria e la distruzione di buona parte del settore industriale, con il ritorno temporaneo ad un’economia prettamente agricola,  conseguenze della crisi economica e della seconda guerra mondiale, portarono ad una ripresa anche del mestiere di cardatore di lana. Alcuni anziani, tuttora viventi, di Cerqueto e Pietracamela, all’epoca poco più che ragazzi, ricordano abbastanza bene la loro esperienza da cardatori nelle Marche o nell’Aquilano.  Verso la metà degli anni ’50, infine, la ripresa dell’economia, la produzione dei tessuti su scala industriale e l’inizio delle grandi migrazioni verso le città, che in pochi decenni spopolarono larga parte dei paesi montani dell’Appennino, conclusero per sempre l’attività arcaica del cardatore di lana.

Quegli anni segnarono pure la fine, lenta ma inesorabile,  di un tipo di civiltà caratteristico dei paesi di montagna, contraddistinto in primo luogo da un sistema di vita quasi egualitario, con bisogni comuni e minime differenze sociali, differenze invece ben presenti nei grandi centri e nelle campagne. Questo rendeva probabilmente  più schietti e solidali i rapporti e più serena l’esistenza, seppur difficile e piena di privazioni, tutta concentrata com’era sul raggiungimento autonomo del minimo vitale.

(Le parole e le frasi  del gergo di Fara S. Martino sono state tratte dal libro “Farantica” di Giovanna Di Cecco, che ci è stato regalato da alcuni amici di Fara).

Angelo Mastrodascio

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