Da Cerqueto ai cieli del Mediterraneo e poi … tante peripezie!

La guerra è finita, gli alleati, inglesi e americani, stanno sbarcando in Sicilia e in Puglia. Dodici divisioni tedesche partiranno dal Brennero verso il sud  per rafforzare la linea difensiva, a fianco dei nazisti! Noi abbiamo salvato la pelle, ora dobbiamo cercare di ritornare nelle nostre case, alle nostre famiglie! Non c’è altro da fare qui!“Con queste parole nel settembre 1943 il capitano della squadriglia della 4a Divisione Bombardamento Terrestre “Drago” , del 43o Stormo della Regia Aeronautica con sede a  Novara,  di  cui faceva parte l’aviatore Quintino Di Matteo,  “congedò” i  suoi soldati.  Fu un saluto responsabile e caloroso. Era  stato da poco reso noto l’armistizio dell’8 settembre  concluso da Badoglio con gli alleati.Quintino aveva perfettamente compreso che, con il passare dei giorni, la situazione in Italia diventava sempre più difficile per via della rappresaglia tedesca. Sapeva che l’esercito italiano, ormai allo sbando, non  esisteva più!
Anzi sosteneva che l’Italia era entrata in guerra con due eserciti, l’esercito libero italiano e l’esercito fascista. Tra i due eserciti spesso c’erano attriti e sgarbi.  Si poteva parlare di due vere e proprie distinte entità. In Africa l’esercito fascista era ben riconoscibile dalle sahariane che indossavano i soldati mentre i soldati dell’esercito italiano indossavano, nonostante il caldo estivo africano,  divise invernali. Quintino sapeva tante cose,   Aveva partecipato alla campagna d’Africa del 1940, una battaglia a difesa delle nostre colonie,  aveva vissuto le inquietudini delle notti di Bengasi e Tripoli. Aveva partecipato allo scacchiere operativo nel Mediterraneo,  a Catania, Siracusa e Lecce.  Aveva incontrato il Duce a Decimomannu  in Sardegna in occasione di una sua visita all’aeroporto militare. Aveva partecipato ai bombardamenti su Malta, che,  rinforzata da aerei e navi dai britannici,  era divenuta una spina nel fianco dell’Asse per la sua posizione strategica nel Canale di Sicilia.

Ma come mai Quintino era divenuto aviatore? Non fu un puro caso se faceva parte di un corpo militare d’èlite.  Da Cerqueto tutti i suoi coetanei erano partiti militari come alpini, alcuni di loro furono inviati  sul fronte russo per un viaggio senza ritorno. E questa sarebbe stata probabilmente la fine di Quintino. Ma Quintino,  prima di fare il servizio militare, aveva lavorato a Roma presso la trattoria dello fratello Vincenzo.  Era addetto al lavaggio delle macchine. Un giorno capitò un generale della Regia Aeronautica

che doveva pulire  la sua  macchina. Al momento della consegna della macchina, perfettamente lucidata,  il generale gli chiese se aveva svolto il servizio militare e se gli interessava farlo in Aeronautica. Quintino mostrò subito  tutto il suo entusiasmo per l’offerta, gli sembrava un sogno: “Magari! – rispose –  Io ho fatto solo il garzonetto con le pecore,  perché sono povero,  vengo da una famiglia povera”. Il generale prese nota del suo nome e cognome e mantenne la parola. Quando Quintino si presentò alla visita di leva a Chieti, fu messo in Aeronautica senza che qualcuno battesse ciglia.  E  dovette certamente subire  il fascino  di quell’emozionante mondo dell’Aeronautica se, con la sua creatività e maestria di  esperto artigiano, non si lasciò sfuggire l’occasione di realizzare, fin dai primi tempi della sua permanenza a Novara,  il modellino di un aereo, gelosamente conservato  per tutta la vita.

Allora da Novara ripartì definitivamente  Quintino insieme ad altri due commilitoni della provincia di Chieti. Il suo non era un congedo militare ordinario, la squadriglia si era sciolta per bontà e lungimiranza del capitano ma tutte le stazioni ferroviarie erano presidiate dai tedeschi  e, come disertori,  dovevano fare molta attenzione per non essere catturati e subire la pena prevista, la fucilazione. Da Novara a Giulianova impiegarono quasi trenta giorni. Salivano su un treno in corsa subito dopo la  stazione e scendevano prima della stazione successiva. Per sopravvivere lungo il tragitto prestavano la propria opera in cambio di qualche pasto e a volte un giaciglio per riposare. A Bologna, a loro insaputa, furono ospiti di una famiglia fascista e, durante la notte,  percepirono che erano in pericolo; udirono, casualmente, che stavano per essere “venduti” ai fascisti.  Si misero, allora,  precipitosamente in fuga abbandonando  tutto quello che avevano,  compresa la divisa e il bellissimo paracadute  bianco,  di seta. Arrivati a

Giulianova i tre aviatori si separarono. I due di Chieti proseguirono verso sud e Quintino si diresse verso Cerqueto percorrendo la strada da Giulianova a Teramo e poi la statale 80 sempre a piedi. Una carrozza gli offrì un  passaggio ma solo  per un  brevissimo tratto.  E finalmente arrivò a casa dove l’aspettavano la moglie Isabella e la primogenita Rema,  nata da solo pochi mesi. Ma i tempi si rivelarono  subito durissimi  anche a Cerqueto, nonostante la situazione fosse lontana dalle enormi difficoltà delle città, dove, oltre agli alimenti razionati, non esisteva altro.  Prezioso era  il contributo di ciò che la campagna offriva spontaneamente ma la fame,  la miseria e  la disoccupazione non risparmiarono neanche Cerqueto e non lasciavano molte scelte.  Quintino dopo poco tempo decise di andare a fare la lana per guadagnare qualcosa in compagnia di Zi’ Batte – Battista Pisciaroli –  e  Zi’ Banie -Beniamino Di Matteo -, quest’ultimo molto più grande d’età. A Pizzoli trovarono una famiglia dove potevano lavorare come lanari. Sfortunatamente però la famiglia presso cui lavoravano non perse tempo a denunciarli ai carabinieri. A nulla valsero le dichiarazioni  relative al servizio militare prestato e al “congedo” ottenuto. Si rifiutarono di dare i propri connotati per non essere identificati e scoperti  disertori. E così Quintino e Battista furono condotti in prigione alle Casermette di Coppito. Ridotti a pane e acqua, per una buona settimana stettero rinchiusi in una cella, potevano uscire solo per pochissimo tempo, come si faceva un tempo con i carcerati. All’ ennesima richiesta delle loro generalità, compresero che non c’era via di scampo, era il momento di fare qualcosa prima di essere costretti a parlare. Escogitarono così un piano di fuga,  mettendo in atto un escamotage per far si che la porta d’ingresso della cella non si chiudesse bene al momento della consegna del pasto. Approfittando della libera uscita dei militari che si trovavano in caserma, al suono della campana si unirono al gruppo,  uscendo tranquillamente dalla porta della cella. Ma il percorso era lungo, il cortile enorme,  bisognava correre e non potevano farlo. Non avevano scarpe e gli zoccoli di legno, che indossavano, oltre ad essere molto rumorosi,  non permettevano di correre. Ad un certo punto si videro e si sentirono scoperti e sotto tiro. Erano stati scoperti e avvistati!  Bontà loro,  i responsabili della caserma non spararono sui due giovani, rimasero a guardarli da lontano, in silenzio mentre si allontanavano con tutte le loro forze in quei pochi ma interminabili e brucianti minuti!

Era  il destino dei  grandi numeri,  figure chiave della storia di Cerqueto. Il loro antico coraggio  è ancora vivo ed è un’eredità che non si può ignorare quando si percorre la stessa terra.

Adina Di Cesare

 

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