I frutti della memoria: le antiche varietà di melo

Foto n. 5. Bartolomeo Bimbi, Mele, 1696-1699 Villa Medicea di Poggio a Caiano, Prato.

L’autunno avanza e la stagione estiva con i suoi raccolti rimane solo un piacevole ricordo, tuttavia da millenni abbiamo imparato che è possibile continuare a beneficiare ancora per mesi dell’eredità dell’estate attraverso la conservazione di alcuni frutti, che fino alla soglia della primavera continueranno a dispensare la dolcezza del periodo caldo. Tra i frutti serbati per la stagione fredda, il posto d’onore spetta alle mele che, oggi come ieri, rappresentano la principale risorsa della frutticoltura nelle zone temperate e nelle aree montane. Tuttavia nel corso degli ultimi decenni la tipologia delle mele che compaiono sulle nostre mense è notevolmente mutata ed al posto delle numerose varietà locali vengono diffuse solo le poche cultivar di rilevante importanza commerciale. A Cerqueto rimane ancora molto viva la memoria delle antiche varietà di melo che spesso erano parte integrante dell’economia, del paesaggio e della vita sociale e quotidiana nel corso delle stagioni. Il soffermarsi su questo patrimonio di diversità agronomica, prima che il declino dell’agricoltura montana e l’impatto della globalizzazione non ne determinino la scomparsa definitiva, può rappresentare la premessa per una futura riscoperta e valorizzazione.

Il territorio abruzzese, grazie alla complessità della sua morfologia, custodisce ancora una numerosa serie di antiche varietà colturali, talvolta di origine molto remota, che lo rendono depositario di un importante patrimonio di biodiversità agronomica. La scarsa sensibilità nei confronti  della tutela delle varietà locali ha posto seriamente a rischio nel corso degli ultimi decenni la possibilità di sopravvivenza di una parte di questa preziosa risorsa che proviene dal passato della nostra agricoltura e si è sviluppata in armonia con le caratteristiche del territorio. In tempi più recenti si è registrata una significativa rivalutazione delle antiche varietà locali, che oltre a rappresentare un aspetto non trascurabile della cultura del territorio, possono costituire una rilevante risorsa genetica ai fini dello sviluppo di un’agricoltura veramente sostenibile. Tra le specie arboree in coltivazione in Abruzzo, il melo (Malus domestica) è quella che annovera il maggior numero di antiche varietà, essendo rappresentato a livello regionale da oltre venti tipi di origine più o meno remota. Queste antiche varietà autoctone spesso presentano una distribuzione estesa ad altri settori dell’Italia centrale o centro-meridionale, ma talora si rinvengono solamente in aree molto ristrette del territorio abruzzese, dove costituiscono preziose tipicità selezionate localmente. Il considerevole livello di biodiversità raggiunto in Abruzzo ed in Italia dalle varietà di Malus domestica si deve alla lunga storia della melicoltura nel nostro territorio, affermatasi già in epoca preromana e proseguita in maniera pressoché indisturbata per tutti i secoli successivi fino ai nostri giorni.

Le motivazioni del successo del melo risiedono in primo luogo nella notevole rusticità della specie, che consente la diffusione della coltura anche nelle zone montane ed alto-collinari, dove per motivi climatici viene meno la risorsa dei fruttiferi di origine mediterranea e mediorientale. Mentre questi ultimi sono pervenuti in territorio italiano per lo più in epoca romana ed hanno avuto successo soprattutto nei settori dove il clima presenta una connotazione di tipo mediterraneo, la coltura del melo, praticata da epoche precedenti, si è affermata anche nelle più remote vallate montane. Grazie a questa capillare diffusione nel corso dei secoli il melo ha dato origine ad una grandissima molteplicità di varianti e di cloni, spesso selezionati in condizioni di isolamento geografico e pertanto esclusivi di alcune aree. Il melo coltivato (Malus domestica Borkh) appartiene alla grande famiglia delle Rosacee ed in particolare alla sottofamiglia delle Maloidee o Pomoidee, che comprende generi come Malus (i meli), Pyrus (i peri), Cydonia (il cotogno), Cotoneaster (i cotognastri), Chaenomeles (i cotogni giapponesi), Mespilus (il nespolo), Eriobotrya (il nespolo del Giappone), Sorbus (i sorbi), Crataegus (i biancospini), etc. In questa sottofamiglia quelli che vengono considerati frutti spesso botanicamente sono degli pseudocarpi o falsi frutti, che assumono la denominazione scientifica di pomi (dal latino pomum  ‘mela’). Nei pomi, come avviene nel melo, nel pero, nel cotogno e nel nespolo, i tessuti che circondano i semi derivano sia dall’ovario del fiore, costituito da due a cinque capsule (carpelli) contenenti i semi, che rappresenta il vero frutto e corrisponde al torsolo, sia dai tessuti del ricettacolo fiorale e del calice (ipanzio), che crescono intorno all’ovario, finendo per formare la porzione prevalente del falso frutto.

Di recente studi genetici hanno accertato che i meli in coltivazione non derivano dal melo selvatico europeo (Malus sylvestris Miller), ancora abbastanza diffuso nei boschi montani abruzzesi, ma il loro unico antenato selvatico sarebbe la specie Malus sieversii Frutti di Malus sieversii (Ledeb) M. Roem. antenato del melo domestico.(foto n.1), che vegeta oggi sulle montagne dell’Asia centrale, nel Kazakistan meridionale, in Uzbekistan, in Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan settentrionale ed in Cina, nella regione di Xinjiang. Malus sieversii è un albero deciduo oggi abbastanza raro allo stato selvatico, raggiunge un’altezza compresa tra i 7 ed i 12 m e produce frutti del diametro di 7 cm.Questi frutti sono i più grandi tra quelli delle quasi 50 specie selvatiche appartenenti al genere Malus e sono paragonabili per dimensioni a quelli dei meli coltivati. Una peculiarità che contraddistingue questa specie è la colorazione rossa delle foglie durante il periodo autunnale, caratteristica che si è conservata solo in una porzione ridotta delle varietà di melo coltivate. La coltivazione di Malus sieversii è iniziata probabilmente sui versanti boscosi della catena del Tien Shan in Kazakistan e da queste aree si è poi gradualmente diffusa verso il resto dell’Asia centrale, la regione del Mar Nero, il Medio Oriente, la Grecia e l’Europa orientale, favorita dalla tolleranza della specie verso le rigide temperature invernali dei suoi luoghi d’origine. Ancora oggi la parola alma, che nella lingua delle popolazioni del Kazakistan indica la mela, figura in numerosi toponimi, tra cui il nome della principale città dello stato, Almaty, che significa ‘piena di mele’.  Dopo l’introduzione in Europa le varietà in coltivazione hanno subito forse un certo grado di ibridazione con il melo selvatico europeo (Malus sylvestris), tuttavia le recenti analisi eseguite sul DNA di alcune antiche varietà in coltura e l’aspetto d’insieme dei meli coltivati testimoniano, che gli effetti di questa ibridazione, se pure si è verificata, sono in genere abbastanza limitati. Vi sono evidenze che durante il decimo secolo A. C. il melo venisse coltivato nel territorio dell’attuale Israele, al di fuori dell’area di distribuzione di M. sieversii, pertanto la domesticazione della specie nei suoi luoghi d’origine deve sicuramente collocarsi in periodo piuttosto anteriore. Resti di semi di mela sono stati rinvenuti in Europa in alcuni siti neolitici, questo è avvenuto anche in provincia di Teramo, all’interno della Grotta di Sant’Angelo, situata presso le gole del Salinello, nonché negli scavi eseguiti nell’area di Campo di fiera, a Teramo. Questi semi sembrano appartenere alla specie selvatica europea (Malus sylvestris) (foto n.2), Frutti del melo selvatico europeo (Malus sylvestris Mill.).i cui frutti, di sapore aspro perché ricchi di tannino, non possono essere consumati subito dopo la raccolta, ma probabilmente venivano conservati in luoghi protetti, come le grotte, dalle antiche popolazioni europee. Qui si lasciavano riposare tra la paglia, tra la neve o in buche scavate nel terreno, per essere poi consumati durante la stagione invernale, dopo un periodo di ammezzimento, favorito dal freddo. L’ammezzimento, che determina la trasformazione dei tannini in zuccheri, è una pratica ancora utilizzata per i frutti del pero selvatico, del nespolo europeo e del sorbo domestico. I frutti del melo selvatico potrebbero inoltre aver trovato utilizzo in rituali dedicati alle divinità ctonie, destinati a propiziare la fertilità dei campi. Questi rituali spesso avevano luogo nelle grotte, ambienti che evocavano l’intimità con la terra dispensatrice di raccolti. L’impiego del melo selvatico nell’alimentazione umana è quasi scomparso a seguito dell’introduzione del melo domestico, tuttavia i piccoli frutti di Malus sylvestris, del diametro di 3 – 4 cm, nelle zone montane hanno continuato a trovare utilizzo per l’alimentazione del bestiame, tanto che in passato la specie è stata frequentemente oggetto di tutela, alla stregua di un vero albero fruttifero. Per questo motivo la specie è entrata a far parte, anche con esemplari di ragguardevoli dimensioni, della copertura vegetale delle “difese”, antichi boschi aperti destinati al pascolo del bestiame, diffusi nelle aree montane dell’Abruzzo e delle regioni meridionali vicine. Nel teramano, nell’area dei Monti della Laga e del Gran Sasso, si ha notizia dell’impiego fino a tempi abbastanza recenti dei frutti di Malus sylvestris per la preparazione di una bevanda fermentata, una sorta di sidro, talvolta colorato di rosso con le bacche del sambuco, che veniva denominato “cacce e mitte”. Questa espressione è identica al nome di un vino pugliese, il Cacc’e Mmitte, vino DOC di colore rosso rubino carico, prodotto nella zona di Lucera, in provincia di Foggia. La somiglianza dei nomi potrebbe non essere casuale, ma rappresentare un’ulteriore testimonianza degli scambi culturali intercorsi tra i territori montani abruzzesi e l’area del Tavoliere delle Puglie, che per secoli fu sede dei pascoli invernali per le greggi provenienti dall’Appennino. Il melo selvatico in Abruzzo è una specie ancora abbastanza frequente nelle aree collinari e montane, mentre è divenuto più raro nelle zone di pianura, dove sono scomparse le coperture boschive. Vegeta, infatti, spesso al margine e nelle radure dei boschi, soprattutto dei querceti, in genere al di sotto dei 1400 m di quota, mostrando una certa predilezione per le zone rocciose calcaree abbastanza asciutte. Il melo domestico spesso compare anch’esso con esemplari inselvatichiti nelle siepi, lungo i bordi stradali ed al margine dei boschi prossimi alle zone abitate. I caratteri che consentono di effettuare la distinzione delle due specie riguardano soprattutto le foglie, che nel melo domestico sono più tomentose, soprattutto nella pagina inferiore, inoltre in questa specie si può osservare una sottile peluria anche sui peduncoli dei fiori e sui piccioli dei frutti. Anche attraverso l’osservazione dei fiori si possono cogliere delle differenze, infatti, nei meli coltivati spesso il colore dei petali assume tonalità rosate più o meno marcate, mentre in Malus sylvestris essi sono sempre bianchi, in aggiunta la fioritura del melo domestico è solitamente più tardiva rispetto a quella della specie selvatica. Un’altra caratteristica distintiva dei meli coltivati è l’assenza di spine, che invece generalmente compaiono all’apice dei rami nel melo selvatico. Il melo domestico in alcune antiche varietà autoctone sembra riproporre alcuni caratteri propri di Malus sylvestris, tra cui le ridotte dimensioni dei frutti. Questa somiglianza potrebbe essere conseguenza di ibridazioni avvenute localmente tra le due specie con l’introgressione di geni del melo selvatico in alcune varietà coltivate. Questo trasferimento di geni potrebbe aver avuto luogo, ad esempio, durante il periodo alto-medioevale quando la coltivazione di Malus domestica si ridusse fortemente a causa della decadenza dell’agricoltura ed alcune delle varietà di melo, già conosciute in epoca romana, furono preservate solo presso i pomarii annessi ai monasteri, che spesso rappresentarono vere isole di sopravvivenza delle antiche colture, immerse nel vasto mare delle selve e degli incolti. L’arboricoltura praticata nella Grecia antica e presso i Romani utilizzava diverse varietà di melo, alcune delle quali sono pervenute sino a noi con poche modifiche, proprio grazie a questa importante opera di conservazione messa in atto presso i monasteri durante il periodo di disgregazione dei sistemi agricoli della tarda romanità determinato dalle invasioni barbariche. In alcuni casi anche la denominazione attuale di alcune antichissime varietà sembra derivare direttamente dai nomi in uso in epoca romana. Ne sono un esempio le mele dette oggi Appie o Appiane, profumate e di colore rosso, che, in base ad un passo di Plinio il Vecchio (23 d.C.-79 d.C.), potrebbero essere state selezionate in Italia da un certo Appio, membro della famiglia Claudia. Le mele Apie o Melapie (in greco melapion), di origine greca, trarrebbero invece il loro nome dal greco apion ‘pera’, per la loro affinità di aspetto con le pere.   Un’altra varietà ben nota in epoca romana era quella detta orcula perché coltivata presso il lago d’Averno, in Campania, considerato dagli antichi Greci l’ingresso dell’Orco, a causa delle emissioni di gas tossici di origine vulcanica che provenivano dal fondo del lago ed allontanavano gli uccelli acquatici dalla superficie del bacino, detto per questo in greco Aornon (non popolato da uccelli), termine da cui deriva il nome attuale. Dalle mele orculae dei Latini, di colore rosso vinoso e raffigurate anche nei dipinti di Ercolano, deriva direttamente le ben nota varietà Annurca, oggi largamente coltivata in tutta la Campania, ma anche in altre regioni, come le Marche. Altre varietà note agli autori latini prendono spesso il nome da personaggi che ne iniziarono la coltivazione come mala scaudiana, da Scaudio, mala malliana, da Mallio, mala matiana, da Gaio Mazio, mala cestiana, dalla gens Cestia. In altri casi il nome deriva dalle località di provenienza come mala amerina, dalla città di Amelia, in Umbria e mala scantiana, dalla foresta Scantia, in Campania. Di tutte queste ultime varietà non conosciamo le caratteristiche e le loro denominazioni non sembrano aver lasciato traccia nei nomi delle varietà autoctone attualmente esistenti. Dopo il 1400 la coltivazione del melo tornò a diffondersi largamente anche in campo aperto, sia in Italia sia nel resto dell’Europa.  In quel periodo le varietà salvate o selezionate presso i monasteri furono propagate su ampia scala, dando origine per incrocio a cultivar ancora nuove, dalle quali discende larga parte delle oltre 7000 tipologie di melo oggi esistenti nel mondo. In talune occasioni gli autori latini si soffermarono su alcune caratteristiche salienti delle varietà di mele allora in coltivazione, pur senza indicarne espressamente il nome. E’ questo il caso di una varietà citata da Plinio il Vecchio, contraddistinta da frutti di piccole dimensioni, maturazione molto precoce, consistenza farinosa e scarsa serbevolezza. Queste mele, note forse nell’antichità come mala farinacea o farinosa, potrebbero rappresentare le antenate di un gruppo di antiche varietà indigene, un tempo piuttosto diffuse in varie regioni italiane, il cui periodo di maturazione cadeva già alla fine del mese di giugno e pertanto erano note come Mele di San Pietro e Mele di San Giovanni, in relazione alle date delle ricorrenze delle due festività, 29 giugno e 24 giugno rispettivamente. Per le prime sappiamo che si tratta di una varietà ora quasi scomparsa, della quale si hanno testimonianze soprattutto per l’Abruzzo, il Veneto ed il Friuli-Venezia Giulia, regioni queste ultime dove erano note come Pomi de San Piero. In territorio abruzzese, fino ai primi dello scorso secolo, le mele di San Pietro erano presenti soprattutto nella provincia di Teramo, nella zona del Gran Sasso e dei Monti della Laga, ma anche sulla costa, a Tortoreto. In periodi ancora precedenti la varietà era coltivata anche altrove, presso Penne e presso Sulmona. A Cerqueto la presenza di questa varietà è ricordata fino a tempi relativamente recenti, insieme alla Mela Nana, che forse corrisponde alla mela di San Giovanni, alla Mela Rosa, alla Mela Gentile (una variante della Mela Rosa), alla Mela Gelata e ad una varietà non ben identificata destinata soprattutto all’alimentazione dei suini. Oggi la Mela di San Pietro non viene più ricordata tra le varietà indigene presenti in Abruzzo, ma andrebbe comunque ricercata. Per quanto concerne le caratteristiche di questa varietà sappiamo che le Mele di San Pietro del Veneto hanno pezzatura piccola, colore della buccia verde-giallo, con sovracolore rosso vivo nelle parti del frutto più esposte ai raggi solari. Molto più diffusa in territorio abruzzese fu in passato la Mela di San Giovanni (foto n. 3), Frutti del Melo di San Giovanniancor più precoce. Per questa varietà abbiamo testimonianza di altre denominazioni quali mele paglierine in Umbria, mele della trebbiatura in Umbria e nel Lazio, mele nane in Abruzzo, nel Lazio, in Umbria e nel Molise. Il frutto della mela di San Giovanni oggi esistente in Umbria presenta buccia liscia, lucida, di colorazione verde con sfumature rosate, che con il procedere della maturazione tende al giallo. La polpa è bianca, piuttosto farinosa e molto aromatica. Il frutto viene raccolto tradizionalmente nel periodo in cui ricorre la festività di San Giovanni Battista, alla fine di giugno. Una varietà con nome e caratteristiche simili si rinviene anche in Toscana e nelle aree interne della Campania. Nel Lazio le mele nane o meline di San Giovanni sono ancora presenti in maniera localizzata sui Monti Lepini, nella provincia di Latina, con alberi alti circa 1, 5 m, che producono sui rami più corti, detti lamburde, piccoli frutti di forma sferico-appiattita e colore verde-giallo con striature rosate. Nella provincia di Viterbo sono segnalate mele con caratteristiche abbastanza simili, dette anch’esse mele di San Giovanni, che presentano frutti di forma globoso-conica o sferoidale, piuttosto irregolari, di pezzatura molto piccola, con peso medio pari a 39,15 g. In Abruzzo attualmente non si ha più notizia della presenza di queste antiche varietà in coltivazione, sebbene siano ricorrenti le testimonianze, anche abbastanza recenti, della loro diffusione. E’ probabile comunque che alcuni individui inselvatichiti sopravvivano al margine di boschi nelle aree montane della regione.  Confermando quanto affermava Plinio il Vecchio, i frutti di queste varietà precoci non si conservano facilmente e per tale motivo già in passato furono scarsamente apprezzati. Queste mele sono comunque adatte all’essicazione, che si può effettuare tagliandole a fette ed esponendole al sole estivo, inoltre la mela di San Giovanni per la sua dolcezza e per il suo profumo è indicata anche per la produzione di conserve. La ridotta possibilità di conservazione rende questi frutti poco adatti alla vendita ed al commercio, destinandoli essenzialmente all’autoconsumo da parte dei coltivatori. In passato la presenza di tali varietà a fruttificazione precoce rappresentava certamente una risorsa nell’ambito dell’economia chiusa delle aree isolate, che richiedeva disponibilità di raccolti durante tutto l’arco della bella stagione. In seguito, una volta venuti meno i vincoli dell’isolamento, l’importanza di tale produzione stagionale di nicchia ha perso significato anche nelle zone montane. Questo ne spiega la rarefazione e la scomparsa in Abruzzo ed in tutta la loro antica area di distribuzione, a vantaggio di altre cultivar più moderne ed ampiamente diffuse, dotate di elevata produttività e di frutti di maggiore pezzatura. Altre varietà indigene dotate di frutti maggiormente serbevoli continuano invece a presentare una certa diffusione nel territorio teramano ed in Abruzzo. Un esempio è rappresentato dalla Mela Gelata (foto n. 4),Mele Gelate coltivate in provincia di Teramo - Ph. N.Olivieri ben conosciuta in passato anche in altre aree dell’Italia centro-meridionale, come le Marche, l’Umbria, la Toscana, il Molise, il Lazio, la Campania, la Puglia settentrionale, la Basilicata, la Calabria e persino la Sicilia, nella zona dell’Etna. In queste regioni essa ha assunto varie altre denominazioni quali: Mela gelata degli Abruzzi, Mela Ghiacciata, Diacciata, Diacciola, Gelona, Oleata, Iaccia (Molise) Mela zuccherina (Lazio), Mela dell’Olio (Toscana). Un’altra varietà strettamente correlata e sovente ad essa assimilata viene invece definita Cerina o Cera ed è presente nelle Marche ed in Abruzzo. La Mela Gelata ha certamente un’origine molto antica, venne infatti ritratta, insieme ad altre varietà, (foto n. 5) tra il 1696 ed il 1699 da Bartolomeo Bimbi (1648-1730), pittore mediceo, che in collaborazione con il botanico Pier Antonio Micheli (1679-1737), realizzò per il Granduca di Toscana Cosimo III De’ Medici una sorta di catalogo visivo delle varietà di frutti allora conosciute.

 Nella descrizione della varietà effettuata da Micheli viene sottolineata la peculiare vitrescenza del frutto: “maculis vitreis foris et intus notato”. In quel periodo la Mela Gelata doveva essere ampiamente diffusa nelle regioni centro-meridionali italiane, dove è rimasta frequente fino alla metà del secolo scorso, tanto che ancora nel 1964 rappresentava, infatti, il 20% della produzione melicola in Abruzzo e Molise ed il 9% di quella siciliana. In seguito la varietà si è alquanto rarefatta, ma non è scomparsa. Attualmente nel territorio abruzzese la Mela Gelata è oggetto di coltivazione soprattutto nelle aree collinari e montane ed è molto nota in particolare nel comprensorio di Farindola (PE). L’appellativo di Mela Gelata, così come la maggior parte degli altri nomi con i quali la varietà è identificata nelle varie zone di presenza, rappresenta un chiaro riferimento alle speciali caratteristiche della polpa, che si presenta di colore verde chiaro ed è a tratti semitrasparente e translucida come il ghiaccio o la carta unta. Per il resto essa è dolce, profumata, molto gustosa e di consistenza croccante. La vitrescenza della polpa è dovuta alla gelificazione del contenuto di una parte delle cellule, che aumenta la compattezza e la consistenza dei frutti. La buccia è liscia, molto cerosa, di colore verde-giallastro opaco, con sovracolore rosato presente su aree molto limitate più esposte ai raggi solari, caratteristiche queste che giustificano l’uso dei nomi Mela Cerina o Cera. La presenza sulla buccia di un consistente strato epicuticolare di cere e di cutina impermeabili riduce la traspirazione, previene la disidratazione e protegge da patogeni come funghi e batteri, contribuendo quindi ad aumentare la conservabilità dei frutti, adatti a permanere anche in fruttaio esterno riparato. I frutti hanno forma sferico-appiattita e vengono raccolti durante la prima metà di ottobre. La pianta presenta fioritura tardiva che le consente di fruttificare anche negli ambienti di alta collina e di montagna dell’Appennino, dove è marcato il rischio di geli primaverili, decisamente più ridotta è invece la tolleranza nei confronti dell’aridità. L’albero di Mela Gelata richiede impollinazione incrociata, che può essere assicurata da altre varietà autoctone, come la Mela Rosa. La fioritura avviene su lamburde e l’albero nel complesso si dimostra molto vigoroso, anche se non raggiunge grandi dimensioni. La pianta può fare a meno dell’innesto e svilupparsi senza problemi su proprio piede nato da seme, in questo caso, tuttavia l’entrata in produzione risulta piuttosto ritardata. Una volta avviata la produzione di frutti procede poi piuttosto regolarmente nel corso degli anni. L’intenso aroma della Mela Gelata richiama gli animali selvatici che appetiscono notevolmente questi frutti, in particolare sembra che questa varietà di mela sia la più gradita all’orso marsicano (Ursus arctos marsicanus), che laddove se ne presenti l’opportunità divora grandi quantitativi di questi frutti durante la stagione autunnale. Per le sue qualità organolettiche la Mela Gelata risulta molto adatta alla preparazione di composte e conserve, anche aromatizzate, da abbinare a formaggi ed altri alimenti salati. Un’altra antica varietà di mela considerata affine alla Mela Gelata ed alla Mela Cerina è la cosiddetta Mela Zitella, ben conosciuta in Abruzzo, ma diffusa soprattutto nelle zone collinari e montane del Molise e della Campania. Si distingue per i frutti di pezzatura medio-grande, di tinta giallo-ocra, dotati di sovracolore roseo o screziato di bruno, nelle porzioni esposte al sole, in maggior misura rispetto alle varietà simili. La polpa presenta colore bianco, ed è dura e croccante, di gusto dolce e leggermente  acidulo, accompagnato da un aroma intenso. Questa varietà predilige versanti asciutti e soleggiati con substrato sciolto e fertile, dove risulta molto produttiva. La maturazione è tardiva, caratteristica che forse è all’origine del nome, ma i frutti sono molto serbevoli. Nell’ambito del panorama della melicoltura nel teramano una varietà indigena che in questo periodo si contraddistingue per la buona diffusione è la cosiddetta Mela Rosa (foto n.6),

Mele Rosa coltivate in provincia di Teramo - Ph. N.Olivieri

le cui origini sono da ricercare forse nelle Marche, ma che in un complesso di forme è diffusa in molte zone dell’Italia centrale (Mela Rosa Marchigiana), in Calabria, in alcuni settori dell’Italia settentrionale, come l’Alto Adige (Mela Rosa di Caldaro), la Lombardia (Mela Rosa Mantovana o Mela Rosa Gentile), il Bolognese (Mela Rosa Romana) ed anche oltralpe (Mela Rosa di Boemia). In questo vasto areale sussistono molte altre denominazioni per queste forme di mele quali: Pam Rose, Pom Ros, Rus, Ruslein, Roson, Rusoun, Rosetta, Del Livà, Gentile, Pianella, Durella, Appietta. La maggior parte di queste denominazioni fa riferimento al colore dei frutti che si presenta in genere giallo-verdastro con tipiche sfumature rosse o rosate che diventano particolarmente evidenti ed estese se la maturazione avviene in zone molto soleggiate. Anche queste mele, in diverse tipologie, furono rappresentate da Bartolomeo Bimbi tra il 1696 ed il 1699, a conferma dell’antichità della loro diffusione. Le Mele Rosa, dette in passato anche Appie, potrebbero discendere dalle mele Appie o Appiane citate da Plinio il Vecchio.   Si ritiene che la Mela Rosa presente in Abruzzo sia originaria delle Marche, dove la varietà compare in varie forme, caratterizzate da colore della buccia verde o giallo e sovracolore rosso più o meno vivo, talvolta violaceo, in questa regione la varietà risulta ancora particolarmente frequente nell’area dei Monti Sibillini. Queste mele presentano dimensioni medie o medio-piccole, forma piuttosto appiattita e picciolo spesso molto corto. Il profumo dei frutti è intenso e aromatico, la polpa è fine, croccante, leggermente acidula, di colore bianco-crema. L’appellativo “rosa” potrebbe derivare non soltanto dalla colorazione assunta dai frutti maturi, ma anche dal profumo prodotto dalla pianta durante la fioritura. La grande diffusione di questa varietà si deve al fatto che un tempo era ricercata per la sua buona conservabilità. Se è raccolta durante prima decade di ottobre, può essere, infatti, conservata per tutto l’inverno. Con il tempo le sue caratteristiche organolettiche tendono a migliorare, poiché la polpa compatta diventa più morbida. La Mela Rosa si adatta bene alla cottura e in passato vi era l’usanza di cuocerla nei camini, sotto la brace, o in forno. Queste mele sono utilizzate anche per preparare composte e come ripieno di vari tipi di dolci. L’albero della Mela Rosa presenta dimensioni medie, tende a svilupparsi verso l’alto e fruttifica in maniera piuttosto regolare, prevalentemente su lamburde. Abbastanza affine alle Mele Rosa è la Mela Piana, diffusa soprattutto nell’Abruzzo meridionale e nell’area della Maiella. Il frutto di questa varietà presenta grandezza media e forma rotondeggiante, ma appare decisamente schiacciato e non simmetrico. La buccia è verde-gialla, con sfumature rosse nella parte più esposta ai raggi solari. La polpa è di colore bianco, di gusto leggermente acidulo anche dopo aver raggiunto la maturazione, croccante e piuttosto aromatica. La raccolta della Mela Piana avviene in ottobre e ed i frutti, molto serbevoli, si possono conservare fino alla primavera successiva. Abbastanza simile alla Mela Piana è la Mela Casolana, prodotta in provincia di Chieti nelle zone di Casoli e di Altino. Questa varietà, benché abbastanza nota anche in passato, probabilmente non corrisponde, come si era invece ipotizzato in passato, a quella citata dal Boccaccio nel Decamerone, nella Novella di Frate Puccio, dove con riferimento ad una donna si legge ” fresca, bella e rotondetta che pareva una mela casolana”. La Mela Casolana cui si riferiva il Boccaccio apparteneva quasi sicuramente ad una varietà di nome analogo che prende il nome da Casole Valdelsa, in provincia di Siena, non lontana da Certaldo. Un’altra varietà denominata Mela Casolana trae origine dal paese di Casole Val Senio in provincia di Ravenna.

Tra le varietà di antica origine un posto importante è occupato anche dalla Limoncella d’Abruzzo nota anche con diversi sinonimi, quali Meloncella, Alice, Francese o Limone.  Tra questi nella provincia di Teramo era usato spesso quello di Meloncella.  La mela Limoncella, sebbene sia coltivata da lungo tempo in Abruzzo, ha origine meridionale, probabilmente in Campania o in Sicilia e potrebbe essersi diffusa verso nord attraverso la Puglia. Questa varietà è molto rustica e vegeta bene nelle zone montane e collinari, adattandosi ai terreni poveri. Grazie alla sua elevata produttività e ed alla sua resistenza risulta particolarmente idonea ai frutteti amatoriali, anche in concorrenza con le cultivar più moderne.   La raccolta dei frutti si esegue alla fine di settembre e la conservazione si può protrarre fino a febbraio. Il frutto è di dimensioni medie o medio piccole (in media di 100- 125 g di peso) dotato di caratteristica forma oblunga, cilindrico-conico, spesso asimmetrico. La buccia è gialla, alquanto ruvida, caratterizzata da piccole chiazze brune nelle parti esposte ai raggi solari. La polpa ha colorazione bianco-crema, consistente e non farinosa, aromatica e di gusto acidulo. Durante la conservazione tende a divenire più sapida ed aromatica. Tra le antiche varietà di melo la Limocella è quella attualmente più coltivata in Abruzzo, al contrario sono molti gli altri tipi la cui consistenza è ormai particolarmente ridotta ed in alcuni casi rischiano la completa estinzione. Tra queste varietà, distribuite soprattutto nel comprensorio della Maiella e nella Marsica, si possono ricordare la Mela Panaia, di origine toscana, la Mela Paradiso, la Mela Cannella, la Mela Tinella, la Mela Ruzza, diffusa anche nel teramano, la Mela Renettona, la Mela Mula, la Mela Mangione, la Mela Appia, la Mela Zaruletta, la Mela Testa d’Asino, la Mela a Sacco, la Mela Cocciona, la Mela Mora, la Mela Trent’onze, etc. La sensibilizzazione delle comunità locali, le iniziative dei Parchi Nazionali e della Regione Abruzzo dovrebbero consentire di preservare questo patrimonio di biodiversità per le future generazioni.

 Nicola Olivieri

 

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