Il mondo delle api

Tra i vari organismi animali la cui frequenza appare vistosamente diminuita nel corso degli ultimi anni figura l’ape domestica (Apis mellifera), una specie spesso così comune in passato nei nostri ambienti da apparire quasi una presenza scontata. In realtà l’evidente declino delle popolazioni di questo insetto sta a dimostrare che forse l’antichissimo rapporto instauratosi tra l’uomo e l’ape domestica sta attraversando una fase di difficoltà da addebitare a svariate cause.

Fino a qualche decennio fa nel territorio teramano, come in molti altri luoghi, il succedersi delle diverse fioriture primaverili e di inizio estate era costantemente accompagnato dal ronzio di innumerevoli api bottinatrici intente a visitare senza posa i fiori alla ricerca di nettare e di polline. Le fioriture della robinia (Robinia pseudoacacia), della sulla (Sulla coronaria), della ginestra odorosa (Spartium junceum), dell’erba medica (Medicago sativa), del tiglio (Tilia x vulgaris), del ligustro (Ligustrum lucidum), dell’inula viscosa (Inula viscosa) e di tante altre specie vegetali rappresentavano un richiamo irresistibile per stuoli di api e di altri insetti pronubi, che si raccoglievano in gran numero presso le piante fiorite riempiendo l’aria di voli e di ronzii. Imenotteri, come le api ed i bombi (foto n. 3), ditteri come i sirfidi, lepidotteri, con le svariate specie di farfalle diurne e notturne, coleotteri con le cetonie e molti altri rappresentanti, partecipavano in gran numero a questa serie di grandi banchetti stagionali, richiamati dagli svariati profumi e colori delle corolle. Questo addensarsi degli insetti impollinatori sulle piante fiorite non era un fenomeno limitato alle zone campestri ed alle aree più naturali, ma si poteva osservare anche negli ambienti urbani, dove lo schiudersi delle fioriture nei giardini, nelle aiuole sui balconi dei paesi e delle città non mancava di richiamare api ed altri insetti anche tra le strade e gli edifici. Le stesse fioriture negli stessi luoghi cittadini appaiono attualmente molto meno frequentate e talora pressoché deserte. Così la fragrante fioritura del falso gelsomino (Trachelospermum jasminoides) che anni fa attirava numerose le api nei giardini teramani attualmente non sembra più richiamare in maniera significativa gli impollinatori, ed in assenza dei pronubi ora la pianta raramente fruttifica.

La diminuzione delle api domestiche appare evidente anche negli ambienti meno antropizzati, basta percorrere un sentiero collinare o montano durante il periodo estivo per notare che spesso sulle piante in fioritura le api domestiche sono poche, sovente in numero largamente inferiore rispetto agli altri imenotteri apidi selvatici, come i bombi.  L’impollinazione delle piante entomogame viene quindi assicurata essenzialmente dagli apidi selvatici e da altri insetti pronubi, che nelle aree meno disturbate sono ancora abbastanza frequenti.

La diminuzione delle api domestiche è un fenomeno che avuto inizio da qualche decennio ed è ascrivibile ad una pluralità di cause concomitanti, sulle quali sono state compiute numerose indagini. Per meglio comprendere come questo insetto, che da secoli è considerato il simbolo della laboriosità e della capacità di fronteggiare le avversità grazie alla sua efficiente organizzazione sociale, si sia rivelato piuttosto sensibile nei confronti dei cambiamenti ambientali di origine antropica, è utile prendere in esame alcuni aspetti del rapporto che questa specie ha stabilito con l’uomo. Come si può evincere dalla sua denominazione comune, cioè ape domestica, Apis mellifera ha stabilito nel tempo in molte zone una relazione così stretta con l’uomo che si può parlare di domesticazione della specie. Il rapporto con l’uomo ha favorito notevolmente la specie, consentendole di ampliare notevolmente il suo areale di distribuzione, anche come specie selvatica, oltre i limiti naturali imposti dal clima ed oltre le barriere geografiche rappresentate dai mari e dagli oceani. In Europa, dove la specie è indigena, probabilmente la sua espansione verso le zone fredde e le piccole isole è stata favorita fin da epoche remote dalle cure dell’uomo, mentre in epoca più recente la sua diffusione in natura nelle Americhe, in Australia ed in Nuova Zelanda è avvenuta successivamente alla sua introduzione come specie domestica allevata dall’uomo.

Il processo di domesticazione dell’ape probabilmente si è completato nell’antico Egitto intorno al 3000 a C. a partire dalla sottospecie attualmente presente nella Valle del Nilo ed in Sudan (Apis mellifera lamarckii Cockerell), come testimoniano i rilievi della cosiddetta “Camera delle stagioni” del tempio del sole costruito dal faraone Niuserra Ini (2445 – 2421 a. C.) della V Dinastia ad Abu Gurab, non lontano dal Cairo. Le numerose raffigurazioni successive e varie notizie riportate da antichi autori testimoniano l’importanza delle api e del miele presso l’antica civiltà egizia, dove l’apicoltura si avvaleva già di pratiche ancora largamente diffuse, come quella del nomadismo. In Africa sono distribuite varie altre sottospecie autoctone di api che vivono spesso completamente allo stato selvatico. Tra queste la più diffusa nella parte centrale e meridionale del continente è l’ape africana (Apis mellifera scutellata Lepeletier), una sottospecie molto aggressiva e particolarmente incline alla sciamatura in caso di disturbo. L’ape africana appare perfettamente adattata alla vita selvatica, grazie alla sua aggressività è in grado di fronteggiare i numerosi animali predatori e saccheggiatori di miele presenti nel suo ambiente.  Con la sciamatura riesce a fronteggiare i danni causati alle colonie da organismi specializzati, come il tasso del miele o ratele (Mellivora capensis), che agisce in collaborazione con l’indicatore (Indicator indicator), uccello ghiotto di cera e di larve di api, che segnala al tasso la posizione dei favi. Queste api, che restano attive per buona parte dell’anno, accumulano solitamente ridotti quantitativi di miele. Altre sottospecie africane sono Apis mellifera capensis Eschscholtz, diffusa nella porzione più meridionale del continente, Apis mellifera monticola Smith, insediata sui maggiori rilievi dell’Africa Orientale, Apis mellifera adansonii Latreille della Nigeria e delle regioni occidentali. In genere esse condividono il temperamento aggressivo di Apis mellifera scutellata. Con la selezione portata avanti dall’uomo parallelamente al processo di domesticazione, fin dall’antichità si è cercato di ridurre l’aggressività delle colonie e la tendenza alla sciamatura, in modo da rendere più agevoli le pratiche apistiche. Nel fare questo gli antichi Egizi probabilmente utilizzarono quelle colonie di api che popolavano i margini del deserto e le oasi, dove la minore presenza di nemici aveva portato all’evoluzione di un indole più mite. Ancora oggi Apis mellifera sahariensis Baldensperger, che vive nelle oasi del Sahara occidentale, si distingue per la ridottissima aggressività.

La geonemia originaria dell’ape domestica oltre al continente africano doveva coprire anche l’Asia occidentale ed il Medio Oriente, fino alla catena del Caucaso, all’Iran ed all’Afghanistan occidentale, area nella quale si ritrova con varie sottospecie come Apis mellifera anatoliaca Maa distribuita in buona parte della penisola anatolica, Apis mellifera armeniaca Skorikov dell’Armenia ed Apis mellifera caucasica Pollmann della regione del Caucaso. In questa area la specie non si spinge molto a nord, come accade invece attualmente in Europa. Di recente (2002) è stata scoperta circa 2000 km più ad est del limite orientale di distribuzione della specie noto, nelle vallate del Tien Shan, tra il Kazakistan e la Cina, una nuova sottospecie isolata, definita Apis mellifera pomonella Sheppard & Meixner perché importante specie impollinatrice dei meli e degli albicocchi molto diffusi nella zona. Questa sottospecie potrebbe essere vicina al ceppo originario di Apis mellifera, presumibilmente separatosi circa un milione di anni fa dall’ape indiana (Apis cerana) a seguito di cambiamenti climatici e poi diffusasi largamente verso occidente.

Le altre specie appartenenti al genere Apis, che sono tutte asiatiche, presentano nel complesso una distribuzione prevalentemente meridionale. L’ape nana (Apis florea), che vive in India, nella Malesia e nel Borneo, è una specie molto primitiva, più piccola dell’ape domestica, così come la simile Apis andrenoides costruisce un piccolo favo appeso ad un ramo orizzontale ed il suo pungiglione non riesce ad attraversare facilmente la cute umana. Al contrario l’ape gigante (Apis dorsata), diffusa in India e nel Sud – est asiatico, fino alle Filippine, può raggiungere la lunghezza di 3 cm ed è estremamente aggressiva. Le punture di più individui di questa specie possono risultare mortali per l’uomo, ma il grande quantitativo (fino ad un quintale) di miele pregiato che accumula in un grande favo, largo fino a 2 m, appeso ai rami di alti alberi, alle rocce o a edifici, la rende comunque suscettibile agli attacchi di “cacciatori di miele” specializzati.

Abbastanza simile all’ape domestica (Apis mellifera) per aspetto e per comportamento, tanto da esserne considerata la specie sorella o l’antenata, sebbene di dimensioni leggermente inferiori, è invece l’ape indiana o ape orientale (Apis cerana) distribuita in Afghanistan, Pakistan, India, Cina, Giappone, Sud – est asiatico e Nuova Guinea. Questa specie si distingue da Apis mellifera per le fasce di colore scuro molto più nette, presenti su tutto l’addome, modello di colorazione che ha ispirato le rappresentazioni dell’ape realizzate in Asia orientale e diffuse anche altrove. Apis cerana presenta un carattere abbastanza tranquillo e forma piccole colonie che costruiscono i favi all’interno di cavità dei tronchi, caratteristiche queste che l’hanno resa idonea all’apicoltura in Asia meridionale ed orientale.

Le arnie utilizzate in questi paesi sono ottenuti da tronchi cavi o da strutture artificiali costruite appositamente, ma il quantitativo di miele accumulato è piuttosto ridotto. L’ape indiana non è diffusa nelle aree fredde del continente asiatico, ma in virtù della sua tendenza a costruire il favo in cavità protette e con l’ausilio di opportune pratiche apistiche potrebbe adattarsi ad aree caratterizzate da inverni abbastanza rigidi.

In Europa l’ape domestica presenta un vastissimo areale di distribuzione che si estende anche a regioni caratterizzate da basse temperature medie invernali, come la penisola scandinava meridionale, la Polonia, i Paesi Baltici e la Russia occidentale.  E’ probabile che la diffusione delle api nel vecchio continente sia stata largamente favorita dall’uomo a più riprese con la diffusione dell’apicoltura fin da epoche molto remote. Dopo i periodi glaciali la specie presumibilmente sopravviveva in Europa allo stato selvatico solamente nelle regioni mediterranee, come la penisola iberica, dove la raccolta del miele selvatico in epoca preistorica è attestata da una pittura rupestre di epoca neolitica rinvenuta nella Grotta de la Araña, presso Valencia, risalente a circa 7000 anni fa.

In seguito il miglioramento climatico consentì l’espansione verso settentrione delle api selvatiche a partire dalla penisola iberica, dalla penisola balcanica e forse dall’Italia.

Lungo le coste europee del Mediterraneo oggi Apis mellifera è presente con alcune particolari sottospecie dotate di caratteristiche spesso molto favorevoli all’apicoltura, frutto probabilmente di una lunghissima opera di selezione portata avanti fin dai primordi dell’antichità classica. Nella Grecia meridionale ed orientale è presente la sottospecie denominata Apis mellifera cecropia Kiesenwetter, dotata di colorazione chiara, che è molto simile nell’aspetto e nel comportamento ad Apis mellifera ligustica Spinola (foto n. 1, foto n. 2), sottospecie diffusa nella maggior parte della penisola italiana. Questa somiglianza tra due sottospecie insediate in ambiti territoriali piuttosto distanti e separati da barriere geografiche, presumibilmente evidenzia la forte influenza del mondo greco sull’apicoltura italiana, esercitata a più riprese dai tempi dell’insediamento delle prime colonie elleniche della Magna Grecia, fino all’epoca romana ed a quella bizantina. Gli antichi greci attribuivano l’introduzione dell’apicoltura ad Aristeo, personaggio mitologico figlio di Cirene e nato in Libia, questo mito potrebbe adombrare l’origine africana e quindi egiziana dell’apicoltura mediterranea, che si sarebbe diffusa in un primo tempo nelle grandi isole mediterranee come Creta, Cipro e Malta, isola quest’ultima la cui denominazione greca originaria, Melita, potrebbe rimandare all’ape, detta in greco melitta o melissa.  Nella penisola iberica meridionale si rinviene Apis mellifera iberiensis Engel o ape di Gibilterra, di colore scuro e piuttosto aggressiva, strettamente imparentata all’ape domestica del Nordafrica Apis mellifera intermissa Buttel-Reepen, sottospecie combattiva ed incline alla sciamatura. Un’altra sottospecie di ape domestica di colore scuro è Apis mellifera sicula Montagano, che si rinviene ancora in alcune zone della Sicilia. L’ape sicula si distingue per l’indole tranquilla ed è ben adattata alle condizioni climatiche dell’isola, dove era allevata da millenni e verosimilmente era produttrice del miele dei Monti Iblei, molto apprezzato durante l’antichità classica. Purtroppo durante lo scorso secolo, con l’affermarsi di pratiche apistiche più moderne, in molte zone della Sicilia sono state introdotte l’ape italiana (Apis mellifera ligustica) ed altre sottospecie, che si sono ibridate con l’antica sottospecie autoctona modificandone irrimediabilmente le caratteristiche, soprattutto nella Sicilia orientale.  Le api ibride frutto di queste improvvide introduzioni non sono ben adattate al bioclima locale e sono andate incontro a ricorrenti morie delle colonie, con considerevoli danni economici. Oggi con il supporto di specialisti si cerca di ripristinare l’allevamento “in purezza” dell’ape sicula, attingendo a quelle popolazioni di api della Sicilia occidentale e delle isole vicine, che indenni da ibridazione grazie all’opera previdente di alcuni, hanno consentito di salvare la sottospecie endemica.

Nell’Europa Occidentale, in quella Centro – Settentrionale e nella regione alpina è diffusa Apis mellifera mellifera, la sottospecie nominale, definita anche come ape nera europea per la sua colorazione scura. Quest’ape dalla vastissima area di distribuzione, estesa dalla Spagna alla Russia europea, non presenta una grande importanza economica e si contraddistingue per il temperamento combattivo. Le caratteristiche morfologiche, come la colorazione scura, ed il profilo genetico messo in luce dalle indagini sul DNA mitocondriale, hanno evidenziato l’affinità di questa sottospecie con l’ape iberica (Apis mellifera iberiensis) e con l’ape del Nordafrica (Apis mellifera intermissa), cioè con le api domestiche del cosiddetto gruppo mediterraneo occidentale, definite del tipo M, ben distinte dal gruppo balcanico o tipo C, che include l’ape italiana (Apis mellifera ligustica), l’ape greca (Apis mellifera cecropia), l’ape carnica (Apis mellifera carnica), diffusa in Slovenia, Austria e Croazia e l’ape macedone (Apis mellifera macedonica). Queste relazioni filogenetiche comproverebbero l’origine iberica delle api indigene nell’Europa Centro – Settentrionale. Nell’ultimo periodo postglaciale l’ape nera europea si sarebbe diffusa verso nord e verso nord – est a partire dall’area di rifugio situata nella penisola iberica. Benché adattata alle basse temperature, l’espansione questa sottospecie verso aree più fresche potrebbe essere stata favorita dall’uomo a più riprese, per via diretta ed indiretta. Le aree antropizzate dell’Europa Centrale presentavano, infatti, una maggiore estensione di radure, prati secondari e coltivi, ambienti più ricchi di fioriture e più simili a quelli mediterranei, rispetto alle foreste chiuse e continue che dominavano originariamente l’Europa media. Inoltre testimonianze di autori classici riferiscono che Celti e Germani praticavano una forma rudimentale di apicoltura, utilizzando grandi tronchi cavi come arnie, così come è avvenuto fino a tempi abbastanza recenti in

Lituania. Successivamente durante l’alto Medioevo, l’ape nera europea si sarebbe avvantaggiata della diffusione verso oriente dei monasteri benedettini che rappresentarono in quel periodo i centri di diffusione dell’apicoltura.  Questo si verificò in particolare all’epoca della rinascenza carolingia. Si può ricordare in proposito che Carlo Magno intorno al 799 d.C. con il Capitulare de villis vel curtis imperii stabilì che in ogni podere fosse presente un apicoltore per la produzione di miele e di idromele, una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del miele. Nell’antichità il miele rappresentò per millenni l’unico dolcificante disponibile e questo può spiegare la grande importanza economica rivestita dall’apicoltura fin dall’epoca egizia. Il campo di utilizzo del miele non si limitava peraltro alla sola alimentazione,   ma spaziava dalla medicina alla cosmetica ed alla conservazione dei cibi. Solo a partire dal 325 a C. con Alessandro Magno il mondo occidentale conobbe lo zucchero di canna, ottenuto dalle coltivazioni della Persia. Per molti secoli tuttavia lo zucchero rimase per gli europei una spezia rara e preziosa, nonostante l’introduzione della coltura della canna da zucchero o cannamela (Saccharum officinarum) in Sicilia (900 d.C.) ed in altri paesi mediterranei per opera degli Arabi. Solo dopo la scoperta dell’America e l’entrata in produzione delle coltivazioni di canna da zucchero impiantate nelle aree tropicali del Nuovo Mondo lo zucchero di canna divenne un bene più accessibile.  In America Centrale e Meridionale, oltre all’ape domestica introdotta dagli Europei, vengono allevate tradizionalmente alcune specie indigene di imenotteri apidi appartenenti al genere Melipona. Questi insetti ricordano vagamente le api domestiche nell’aspetto, ma sono privi di pungiglione. L’organizzazione sociale delle Melipona è complessa quasi quanto quella delle api domestiche, ma adotta soluzioni differenti e forse più comprensibili per l’uomo, infatti, ad esempio, la sciamatura coinvolge le regine nuove e non quella preesistente ed avviene con gradualità, completandosi solo quando il nuovo ricovero è stato opportunamente predisposto e fornito di provviste alimentari. In questi apidi anche i maschi producono cera e collaborano con le operaie alla costruzione dei favi, che sono disposti orizzontalmente (non verticalmente come nelle api domestiche), in genere all’interno di tronchi cavi aperti verso l’esterno tramite uno stretto passaggio, difendibile da poche operaie e circondata all’esterno da sostanze viscose che bloccano gli aggressori. Le colonie, che possono sopravvivere per molti anni, in alcune specie comprendono fino a 100.000 individui e producono fino a 45 kg di miele.   La meliponicoltura finalizzata alla produzione di miele e di cera è attualmente abbastanza diffusa in Brasile e negli stati dell’America Centrale, dove ha una tradizione risalente ai Maya, che allevavano la specie Melipona beecheii, facendola oggetto persino di cerimonie religiose. In queste regioni il genere Melipona è rappresentato da numerose specie, molte delle quali sono oggetto di allevamento. Poiché questi insetti presentano diversa ecologia la meliponicoltura non segue procedure omogenee come l’apicoltura, ma deve adattarsi alle esigenze delle diverse specie utilizzate e questo sino ad ora ne ha rallentato l’evoluzione.

La maggiore uniformità genetica dell’ape domestica ha invece favorito la diffusione di pratiche apistiche sempre più razionali e produttive come l’introduzione dei favi mobili posti su telaini estraibili, che consentono la raccolta dei prodotti dell’alveare ed i controlli sanitari senza distruggere i favi come accadeva in precedenza. Questa innovazione si deve al rev. Lorenzo Lorraine Langstroth (1810 – 1895) che, praticando l’apicoltura in Massachussets, nel 1851 scopri il cosiddetto “passo d’ape” o “spazio d’ape” cioè la distanza standard di 9,5 mm che è necessario lasciare tra coprifavo e portafavo e tra i montanti dei telai perché le api non fissino il favo alle pareti ed al tetto dell’arnia.  Nel 1863 L.L.Langstroth iniziò ad allevare l’ape italiana (Apis mellifera ligustica) in sostituzione della meno produttiva ape nera europea (Apis mellifera mellifera), allora molto diffusa negli Stati Uniti    Tra le diverse sottospecie di api domestiche quelle che presentano caratteristiche più vantaggiose in condizioni di clima temperato appartengono al tipo C, cioè al gruppo balcanico e sono l’ape italiana (Apis mellifera ligustica) e l’ape carnica (Apis mellifera carnica), mentre l’ape greca (Apis mellifera cecropia) si dimostra troppo sensibile al freddo. L’ape carnica possiede un carattere ancor più mansueto rispetto all’ape italiana, si adatta bene alle regioni fredde, ha uno spiccato senso dell’orientamento ed il suo apparato boccale una ligula più lunga che le permette di prelevare il nettare anche da fiori dotati di corolla profonda come quelli delle Fabaceae.  Queste peculiarità la rendono particolarmente idonea all’apicoltura nelle zone temperate, mentre si adatta meno ai climi caratterizzati da estati calde. Allo scopo di migliorare la resa dell’apicoltura da tempo si ricorre all’introduzione di sottospecie di api provenienti da aree geografiche anche distanti nella speranza di aumentare la produttività degli apiari o correggere alcuni difetti delle api locali.  Queste pratiche hanno portato ad estesi processi di ibridazione tra le diverse sottospecie, con la scomparsa delle popolazioni originariamente presenti e forse meglio adattate alle condizioni locali. Questa situazione si è verificata soprattutto nell’Europa Centrale e nell’America Settentrionale ai danni dell’ape nera europea (Apis mellifera mellifera), che è scomparsa da molti settori del suo primitivo areale di diffusione a vantaggio di popolazioni ibride. Nelle api l’ibridazione risulta poco controllabile perché gli individui maschi che nascono dalle covate deposte dalle regine introdotte si allontanano anche per numerosi chilometri dal luogo di nascita e possono accoppiarsi con le regine di altre colonie domestiche o selvatiche, modificando così l’assetto genetico di tutte le popolazioni di ape presenti in certo territorio.  Le api ibride possono presentare maggiore produttività e manifestare simultaneamente più caratteristiche positive funzionali all’apicoltura ereditate dai ceppi parentali, tuttavia spesso esse perdono alcuni degli adattamenti che gli ecotipi locali hanno sviluppato a seguito di una lunga evoluzione influenzata delle condizioni ambientali del luogo. Questo prolungato processo evolutivo si traduce in equilibrio tra le componenti del patrimonio genetico che risultano in un certo senso coadattate tra loro, le ibridazioni tra sottospecie geneticamente distanti possono condurre alla rottura di questi assetti genetici coadattati, portando alla comparsa di combinazioni nuove dagli esiti non sempre palesi, ma spesso destinati ad esprimersi sotto forma di maggiore vulnerabilità nei confronti di fattori selettivi imprevisti. Tra i fattori selettivi rientrano i parassiti delle api, la cui diffusione su vasta scala risulta oggi notevolmente più facile che in passato a causa dei frequenti trasferimenti di colonie e di regine.

Tra ceppi di api sottoposti ad un lungo processo di ibridazione e selezione figura quello denominato “Buckfast” o più precisamente Apis mellifera x Buckfast, dal nome dell’abbazia benedettina inglese di Buckfast, dove a partire dal 1916 il religioso padre Adam Kehrle, partendo da un ibrido tra l’ape italiana e l’ape inglese che si era dimostrato resistente ad una acariosi, determinata dall’acaro Acaraspis woodi, che aveva decimato le colonie inglesi, cercò di ottenere tramite una serie di incroci mirati protrattisi per decenni, una razza di api che sommasse le caratteristiche positive di varie sottospecie. A questo scopo furono utilizzate in primo luogo l’ape italiana (A. mellifera ligustica), e poi A. mellifera mellifera, A .m. cecropia, A. m. anatoliaca e le africane A. m. sahariensis ed A. m. monticola. Il risultato di questa selezione è un’ape dall’indole molto tranquilla, fornita di varie caratteristiche positive che l’hanno fatta apprezzare in Inghilterra ed in vari paesi dell’Europa centrale a discapito della sottospecie locale. Quest’ape tuttavia, pur manifestando varie qualità funzionali all’apicoltura, in base ad esperienze condotte in paesi come la Danimarca, nel tempo ha dimostrato di non conservare in maniera adeguata alcune importanti caratteristiche comportamentali di base, come le attitudine alla cura dell’igiene dell’arnia ed alla pulizia reciproca tra le api. Questo espone maggiormente le colonie ad infezioni come la temuta peste americana, causata dal batterio Paenibacillus larvae, che ultimamente ha decimato le colonie di api in Australia ed in Danimarca.

Un’esperienza di ibridazione che ha fornito risultati certamente negativi è stata quella condotta nel 1957 in Brasile nello stato di Minais Gerais dal biologo Warwick Estevan Kerr utilizzando 26 regine di ape africana (Apis mellifera scutellata) provenienti dalla Tanzania, che desiderava incrociare con le api locali di origine europea. L’intento era quello di ottenere colonie più produttive in condizioni di clima tropicale, invece il risultato fu quello di produrre api ibride “africanizzate” molto aggressive, così come lo è in natura la sottospecie africana Apis mellifera scutellata.

Come sovente accade in questi casi, nonostante le precauzioni di Kerr, alcune regine e fuchi di api appartenenti al ceppo “africanizzato” riuscirono lasciare gli alveari ed incrociarsi con le api locali dando origine a popolazioni ferali, cioè inselvatichite, e domestiche di api africanizzate, che grazie alla loro elevata aggressività hanno finito per diffondersi largamente in natura e negli apiari in tempi abbastanza brevi. Queste api per la loro indole combattiva possono rappresentare un rischio per l’uomo, poichè aggrediscono in massa ed inseguono quanti si avvicinano alla colonia in misura molto superiore rispetto alle api europee. Inoltre spesso si stabiliscono in cavità del suolo che possono essere raggiunte facilmente dall’uomo in maniera inconsapevole. Questi comportamenti hanno suscitato grande allarme, soprattutto nell’opinione pubblica statunitense, poiché dopo essersi diffuse, a partire da 1957, in gran parte del Sudamerica e del Centroamerica, fino al Messico, nel 1990 le api africanizzate sono arrivate negli Stati Uniti, espandendosi negli stati meridionali, fino a giungere negli ultimi tempi in California ed in Florida. Le api “africanizzate” non sembrano in grado di sopravvivere in aree caratterizzate da inverni freddi, per cui la loro espansione probabilmente non proseguirà molto verso nord, inoltre si è notato che in tutto il loro areale di diffusione ed in particolare in Brasile,  grazie ai continui incroci con le api europee preesistenti, la loro indole aggressiva può stemperarsi. In queste modo le api “africanizzate”, che morfologicamente sono pressoché indistinguibili dalle api europee, possono effettivamente rivelarsi una risorsa per l’apicoltura, in quanto in condizioni di clima tropicale si rivelano più produttive delle api europee.

In tempi abbastanza recenti in buona parte dell’America Settentrionale le popolazioni di api selvatiche di tipo europeo sono comunque quasi scomparse a causa del diffondersi di malattie e parassitosi trasmesse dalle api allevate. Una situazione simile si è verificata in Europa ed in Italia dove le api selvatiche, non sottoposte alle cure dell’uomo, hanno subito l’impatto delle diverse infezioni ed infestazioni che hanno colpito le colonie domestiche. Le popolazioni selvatiche, decimate da queste avversità, faticano a riprendersi e solamente dopo la lenta evoluzione di una qualche forma di resistenza ai parassiti tornano a ripopolare gli ambienti naturali. Questa rappresenta una delle ragioni per cui nelle zone dove non si pratica l’apicoltura il numero delle api in circolazione si è notevolmente ridotto. Nel contempo l’apicoltura stanziale tradizionale, basata su piccoli numeri di arnie e semplicemente complementare rispetto al resto delle altre attività di fattoria è fortemente diminuita, soprattutto in prossimità dei maggiori centri urbani.  In queste zone l’agricoltura stessa è retrocessa distanziandosi spesso dagli abitati e lasciando intorno a questi una fascia di aree parzialmente incolte. Ciò può spiegare perché le api si sono fatte rare nelle nostre città e nei nostri paesi, a differenza di quanto avveniva in passato.  Le api domestiche  che vivono allo stato selvatico costruiscono i loro favi all’interno delle cavità di vecchi tronchi, nelle anfrattuosità di pareti rocciose o in spazi vuoti presenti negli edifici, sistemazioni queste disponibili in maniera sempre più limitata nei nostri ambienti.

Il parassita che negli ultimi decenni ha arrecato maggiori danni all’apicoltura è stato l’acaro Varroa destructor, una specie di origine asiatica, il cui nome generico deriva dal latino Varro ‘Varrone’, cioè lo studioso latino Marco Terenzio Varrone (116 a C. – 27 a C.), nato a Rieti, che tra le altre cose trattò anche di apicoltura nella sua opera “De re rustica”.  Varroa destructor originariamente, insieme ad altri acari congeneri, utilizzava come specie ospite l’ape indiana (Apis cerana), senza peraltro arrecare particolari danni. Le api indiane hanno infatti evoluto nel tempo comportamenti che riducono gli effetti delle infestazioni di acari. Tra questi vi è il cosiddetto “grooming” o pulizia reciproca, che rappresenta un meccanismo di resistenza attiva nei confronti del parassita. Una volta individuato l’acaro, se l’ape non riesce ad eliminarlo da sola, compie una sorta di danza che richiama altre api, che intervengono rimuovendolo con le mandibole ed uccidendolo. In questo modo la colonia riesce a controllare il numero delle Varroa presenti. L’introduzione delle api domestiche europee nelle Filippine, dove in precedenza si allevava solo Apis cerana, sembra abbia favorito il salto di specie della Varroa destructor, con effetti devastanti per Apis mellifera, che in genere non manifesta in maniera spiccata comportamenti di “grooming” adeguati a fronteggiare le infestazioni di questi acari. Dagli anni ’60 del secolo scorso l’infestazione della Varroa o varroasi è dilagata prima nel continente asiatico e successivamente nell’Europa Orientale per diffondersi in Italia durante i primi anni ’80. Come sovente accade in questi casi la nuova parassitosi inizialmente ha avuto effetti molto gravi sull’apicoltura italiana ed europea, causando ingenti danni economici.  In seguito tuttavia l’impatto del nuovo parassita si è affievolito grazie all’utilizzo di insetticidi chimici del gruppo dei piretroidi e degli organofosfati ed all’adozione di opportune pratiche apistiche come il “blocco della covata” che preclude agli acari la possibilità di riprodursi, dal momento che depongono le uova soprattutto nelle cellette che ospiteranno le larve destinate a diventare fuchi. L’uso degli insetticidi o in alternativa di prodotti chimici naturali, come gli acidi ossalico o formico non rappresenta comunque un soluzione definitiva nei confronti della varroasi, poiché gli acari nel tempo tendono a divenire resistenti nei confronti di queste sostanze, che peraltro possono lasciare dei residui nei prodotti dell’alveare. Il perfezionamento delle buone pratiche apistiche come, ad esempio, l’impiego del “telaino indicatore trappola” o T.I.T., che consente di eliminare le cellette più infestate dagli acari in corso di riproduzione, costituiscono soluzioni più adeguate sul lungo periodo.  La strategia più idonea per fronteggiare la Varroa consisterà comunque nel favorire, tramite opportuna selezione, la diffusione nelle colonie di api domestiche di quegli stessi comportamenti difensivi naturali, già segnalati in alcune regioni come la Russia e la Siria, che consentono all’ape indiana di convivere con le diverse specie di Varroa. Queste stesse strategie sono le uniche che possono salvare le popolazioni di api ferali che non usufruiscono delle cure dell’uomo. Purtroppo all’origine dell’infestazione di Varroa, così come di altre patologie che periodicamente falcidiano le colonie di api domestiche vi sono comportamenti incauti degli apicoltori, che spesso non tengono conto del fatto che le api sono esseri viventi inseriti negli ecosistemi e sono pertanto sottoposte alle stesse leggi ecologiche che regolano la vita e la coesistenza degli altri esseri viventi. In particolare i trasferimenti di specie, di sottospecie, di ecotipi da un continente all’altro, da un paese all’altro, oltre le barriere geografiche ed ambientali ed oltre i tempi geologici e filogenetici che hanno condotto alla differenziazione dei genotipi, rappresentano sempre azioni molto rischiose e da ponderare accuratamente per tutte le loro possibili conseguenze negative. Con i nuovi arrivati viaggiano infatti facilmente anche i loro parassiti ed i loro patogeni, che nel nuovo ambiente possono trovare nuovi ospiti indifesi e diffondersi in maniera incontrollata. Inoltre gli organismi intenzionalmente introdotti possono competere con le specie o le sottospecie autoctone causandone la scomparsa o recando squilibri negli ecosistemi che finiscono per coinvolgere molti altri esseri viventi. In aggiunta gli organismi introdotti possono incrociarsi con quelli locali appartenenti alla stessa specie trasmettendo caratteristiche genetiche indesiderabili o comunque disfunzionali rispetto al contesto, che non erano state adeguatamente valutate. Tutti questi possibili effetti negativi impongono grande cautela in sperimentazioni che non possono essere dettate solamente dalla semplice prospettiva di una maggiore produttività o dall’intento di provare soluzioni non ancora adottate dalla natura.

Un’ulteriore minaccia alle api ed agli altri insetti impollinatori è rappresentata dai pesticidi impiegati in agricoltura. L’incremento dell’impiego di insetticidi nelle coltivazioni è spesso legato all’arrivo di nuovi parassiti, introdotti inconsapevolmente in maniera passiva.  E’ recente la diffusione in Europa ed in Italia della diabrotica del mais (Diabrotica virgifera virgifera), coleottero crisomelide nordamericano parassita del mais comparso in Serbia nel 1992 ed in Italia, in Veneto, nel 1998. L’espansione di questo dannoso fitofago ha costretto ad un incremento dei trattamenti antiparassitari nelle principali aree maidicole italiane ed europee. Tra i vari prodotti impiegati i concianti neonicotinoidi, applicati ai semi di mais ed aerodispersi dalle macchine seminatrici nelle zone agricole in un periodo dell’anno nel quale le api sono in piena attività, sembrano aver avuto un impatto particolarmente pesante sugli imenotteri, causando vere e proprie morie, che hanno destato allarme negli apicoltori e dell’opinione pubblica. Questo ha indotto all’emanazione di un provvedimento di sospensione dell’utilizzo dei concianti del mais a base di insetticidi neonicotinoidi che dal 2008 e stato prorogato più volte, l’ultima volta nel giugno 2011, nell’attesa dei risultati di sperimentazioni scientifiche che consentano di correggere gli effetti negativi sull’entomofauna di questi prodotti fitosanitari.  La sospensione dell’uso dei concianti neonicotinoidi del mais in Italia ha consentito una ripresa delle popolazioni di ape domestica nelle aree che erano state maggiormente interessate dalle morie. Tuttavia l’impiego in generale dei pesticidi in agricoltura riduce le popolazioni di api e di altri insetti, tanto che da alcuni anni si è diffuso l’impiego di Apis mellifera ligustica come “specie sentinella” per il monitoraggio dell’inquinamento da pesticidi e da altre sostanze. Le caratteristiche che rendono l’ape domestica un buon organismo indicatore sono molteplici, ma risiedono in primo luogo nella grande frequenza di contatti con tutte le componenti dell’ambiente che circonda l’arnia: l’aria, l’acqua, il suolo, la vegetazione spontanea e la vegetazione coltivata. In media l’attività di bottinamento e di ricerca dell’acqua delle api si svolge entro un’area di circa sette chilometri quadrati intorno all’alveare, pertanto le informazioni fornite sulla presenza di contaminanti ambientali desumibili da questi insetti sono riferite ad una zona di proporzioni chiaramente circoscritte. All’interno di questo territorio le api, che sono imenotteri decisamente polilettici, raccolgono cioè polline e nettare da fiori ed infiorescenze di numerose specie di piante, possono sfruttare le fioriture di una enorme gamma di vegetali, senza trascurare la melata che viene prodotta da afidi, coccidi e psillidi, i frutti particolarmente zuccherini, la resina e la propoli. Inoltre, come era già noto ad Aristotele (384 a. C. – 322 a. C.), le api bottinatrici (foto n. 4) dopo aver individuato un certa sorgente alimentare, tendono a frequentarla per l’intera giornata ed anche per i giorni successivi, evitando di visitare specie vegetali diverse contemporaneamente. Questa fedeltà temporanea a particolari fioriture e quindi a determinati luoghi, rappresenta il frutto di un sorta d’imprinting transitorio che consente agli insetti un significativo risparmio energetico, ma può rivelarsi utile anche in vista dell’effettuazione di studi riferibili ad ambiti ristretti. Ogni ape bottinatrice quotidianamente compie in genere tra i dodici ed i quindici voli verso i siti di raccolta ed in queste occasioni può arrivare a visitare un centinaio di singoli fiori, effettuando in tal modo miriadi di microprelievi dalle superfici con cui viene a contatto. Si stima che in genere su di un numero medio di api per alveare che si aggira tra le quarantamila e le cinquantamila, almeno un quarto sia rappresentato da individui che si dedicano attivamente alla raccolta di nettare, polline, melata, propoli, resine, acqua, etc. Questo dato lascia intendere chiaramente le innumerevoli occasioni d’interazione con i diversi compartimenti dell’ambiente esterno. In particolare va sottolineato il costante rapporto di questi insetti con il mezzo aereo e con i contaminanti in esso sospesi, soprattutto durante il volo, ma anche tramite la respirazione tracheale. I peli che ricoprono il corpo dell’imenottero tendono infatti a trattenere le particelle disperse nell’aria e quelle sollevate con il movimento delle ali. L’assunzione ripetuta dei contaminanti tossici provoca la morte precoce delle api bottinatrici, esse vengono espulse dall’alveare e possono essere raccolte in particolari cestelli posti al di sotto dell’ingresso e contate settimanalmente. Nel caso che il numero di api morte superideterminate soglie critiche per stazione di monitoraggio vengono effettuati esami chimici e palinologici sugli insetti morti, allo scopo di identificare i residui di contaminanti presenti su di essi e risalire alle specie vegetali visitate e quindi ai siti di bottinamento.

Se si desidera monitorare la presenza di composti organici o inorganici meno tossici o di contaminanti di provenienza industriale o stradale, l’ape domestica può fungere da indicatore indiretto, tramite l’esame dei residui chimici comunque veicolati dagli insetti e soggetti ad accumulo nel miele ed in altri prodotti dell’alveare. Indagini finalizzate allo studio dei residui inquinanti presenti nel miele sono state condotte in Abruzzo fin dal 1997.

In Italia un significativo complesso di esperienze sull’utilizzo dell’ape domestica come specie indicatrice della presenza di inquinanti ambientali di diversa natura, quali metalli pesanti, radionuclidi e soprattutto pesticidi, è stato portato avanti con successo da oltre tre decenni negli agroecosistemi dell’Emilia – Romagna dal gruppo di ricerca coordinato dal noto zoologo, entomologo ed etologo  Giorgio Celli, recentemente scomparso e da Claudio Porrini, presso l’Istituto di Entomologia “Guido Grandi” della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna.

Un’ulteriore minaccia alle popolazioni di api domestiche sembrerebbe rappresentata dai campi elettromagnetici prodotti dall’uomo, dal momento che questi insetti sono sensibili al campo magnetico terrestre grazie a cristalli di magnetite presenti nelle loro cellule adipose. I meccanismi di magnetorecezione nelle api furono messi in luce dall’etologo Martin Lindauer (1918 – 2008), che studio il modo tramite il quale venivano orientati i favi nelle cavità naturali dei tronchi d’albero e l’orientamento delle api bottinatrici rispetto al campo magnetico terrestre. Di recente uno studio portato avanti dallo svizzero Daniel Favre ha dimostrato che le onde elettromagnetiche  dei telefoni cellulari hanno un marcato impatto sul comportamento delle api, determinando uno stato di agitazione delle colonie che può essere paragonato  a quello che precede la sciamatura.

Questo ulteriore fattore di turbamento è indicativo della situazione nella quale vengono a trovarsi le api domestiche in molti luoghi antropizzati, sottoposte ad alterazioni ambientali che non solo rendono l’ambiente insalubre ed ostile, ma interferiscono pesantemente anche con i loro peculiari sistemi di orientamento e di comunicazione, che rappresentano forse il principale segreto della straordinaria società di questo speciale animale domestico che ancora non conosciamo completamente.

Nicola Olivieri

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