La leggenda delle ciaramelle e Venë dë Sëntë

L’Abruzzo è la patria delle zampogne e quindi degli zampognari che, con i loro strumenti fatti di legno e d’aria, riuscivano a farsi ascoltare da un imperatore romano agli albori della cristianità. Pare che lo stesso Nerone, stando a quanto ci riferisce Svetonio nel “De Vita Caesarum”, suonasse, tra diversi altri strumenti, anche la zampogna o “utriculus” (piccolo otre), come i latini la chiamavano.

Da Nerone, nel corso dei secoli, sono nati i giullari, i trovatori, i musicanti di strada (mi viene in mente la bella fiaba dei musicanti di Brema) e di osteria e i cantastorie. Ne ricordo uno che negli anni ’50 veniva a Cerqueto e dalla cassetta di legno tirava fuori dei cartoni disegnati che illustravano la vita del bandito Giuliano o la storia della Pierina, una triste vicenda di una ragazza uccisa in un modo macabro dal fidanzato. Il cantastorie appoggiava i suoi cartoni ad un muro, il preferito era quello del Pianosanto, e con il canto e con le parole spiegava le varie scene.

Ma è soprattutto grazie ai pastori, proprio a quelli d’Abruzzo, che D’Annunzio ha immortalato nella bellissima poesia “I Pastori”, che possiamo ascoltare la melodia del piccolo otre che arriva dritta al cuore, creando commozioni infinite anche nel nostro strano mondo moderno.

Oltre il tempo e le mode, le zampogne sono arrivate in tutta l’Europa, in Inghilterra per prima, e continuano e continueranno a vivere in una molteplicità di forma e di tipi, per riproporre repertori di un tempo magico e regalarci attimi struggenti di nostalgia e restituire ad ognuno il proprio Natale.

Una bella leggenda legata a Venë dë  Sëntë, raccontatami da mamma, dona a questo strumento umile e semplice un tocco di cielo. Era la notte di Natale e i pastori assiepati intorno a “Venë dë Sëntë” (Sasso dei Santi) cercavano di proteggersi dalla neve e dal gelo, accovacciati accanto alle loro lanose pecore, sognando il caldo di lu tїzzaunë. Tutto a un tratto udirono un canto divino, una melodia che ammaliava ogni filo d’erba. Come spinti da una forza, lasciarono il gregge e tutte le loro misere cose e si avviarono verso la sorgente della musica.

Finalmente, dopo un cammino lungo e faticoso, trovarono un posto bellissimo: dietro una rupe c’era una grotta, illuminata a giorno da una grande luna e da milioni di stelle e colma di una miriade di angeli che proteggevano con le loro ali sante un bambinetto appena nato. Ammagliati dall’incanto della celeste visione, dimenticarono le loro greggi, lasciate in balia della notte e dei lupi. Al ritorno gli ovili erano vuoti, erano scomparsi anche i cani. I pastori erano disperati: le pecore erano tutta la loro vita presente e futura, erano il loro pane quotidiano. Senza di loro non avrebbero avuto di che vivere. Si sparpagliarono nell’ impervia zona, chiamando per nome i loro cani ma, dopo diversi giorni d’inutile ricerca, la speranza di ritrovare le pecore era ormai vana. Quando un bambino con uno strano strumento cominciò a suonare una melodia dolcissima inondò l’aria gelida.

I pastori, catturati da quel suono, dimenticarono, per un attimo, la loro disperazione, che si trasformò in una grandissima gioia, nel vedere apparire, come d’incanto, le loro pecore sane e ben pasciute.

Nel nostro immaginario “Venë dë Sëntë” è sempre lì con i pastori, che, per la loro semplicità ed umiltà e con le loro pecore, occupano da 2000 anni la più bella ed importante delle scene dell’umanità: la nascita di Gesù, il Verbo che si fece carne per essere uomo tra gli uomini e per salvare il genere umano da Lui amato tanto.

Rema Di Matteo

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