C’era una volta un misero vecchietto, solo con tre figli e poveretto
“Per voi non ho niente, per il mondo andate
Abbiate fortuna, di me non vi curate”
Disse poi loro: “Son vostro padre, non dimenticate
E vostra madre in cuor sempre portate”
Il più grande a tagliar legna andò, il secondo come vaccaro lavoro trovò
Il più piccolo il mondo girò e in una grande città il bando del re ascoltò:
“Chi la penna dell’uccello grifone troverà, mia figlia certamente sposerà”
Una contadinella sapiente incontrò e l’uccello grifone gli indicò
La bella piuma fulva staccò e verso casa s’incamminò
Ingenuo e buono, il fratello maggiore cercò, della penna gli raccontò
Poi gli disse” Se la figlia del re sposerò, son tuo fratello, t’aiuterò”
Superbo e accorto il fratellon in una prateria lo portò, a scender giù in un pozzetto lo incoraggiò
La penna lucente con gioia scrutò e, ripieno il pozzetto di terra, il buon fratello ammazzò
Felice e contento dal Re andò e la rossiccia penna gli mostrò
Raggiante la principessa strabiliò e alle nozze d’amore si preparò
Un pastorello al pozzetto passò e la sua brava cagnetta a scavar cominciò
Dopo averlo spolpato, un piccolo osso rivelò
Il pastorello a bucar l’osso iniziò e un piffero con 4 buchi vi modellò
Il bell’osso a suonar cominciò, ma il fischietto piuttosto cantò:
“O pastorello che in bocca mi tieni
Stringimi forte e suonami bene
Per una penna di uccello grifone
Mi hanno ammazzato a campo leone”
Di sasso il pastorello restò e subito dopo a suonar riprovò
Ma il fischietto il suo motivetto a cantar seguitò
Alla piazza del paese si portò e al reverendo il piffero così cantò:
“Reverendo che in bocca mi tieni,
Stringimi forte e suonami bene
Per una penna di uccello grifone
Mi hanno ammazzato a campo leone”
L’arietta continuò e anche al sindaco e al prefetto toccò
Fino al Re la notizia arrivò e il giorno delle nozze il pastorello a sé chiamò
Durante il banchetto a suonar lo invitò e immancabile la canzoncina ricominciò
I commensali tutti l’osso chiamò, mentre lo sposo a scolorar cominciò
La sposa suonò, la regina madre pure si cimentò e infine anche il re, incredulo, tentò
Infallibile il fischietto a chiamar tutti per nome perseverò
Anche allo sposo, riluttante, toccò. La mano rattrappita infin si sbloccò
e l’osso appagato superbamente tuonò:
“CARO FRATELLO CHE IN BOCCA MI TIENI
STRINGIMI FORTE E SUONAMI BENE
PER UNA PENNA DI UCCELLO GRIFONE
MI HAI AMMAZZATO A CAMPO LEONE”
Il palese delitto l’empio non contestò e in piazza, tra la gente, per volere del Re, infine, bruciò.
Questa è la versione cerquetana della popolare fiaba dell’Osso che canta, un lontano ricordo dell’infanzia, che vi ripropongo sotto forma di filastrocca. È stata raccontata nel lontano 1973 anche da Elia Pisciaroli, pastore cerquetano, al Professore Giuseppe Profeta, ordinario in Scienze demo-etno-antropologiche e in Sociologia, nella sua intensa attività di ricerca sulla cultura cerquetana e abruzzese. L’ho potuta di nuovo ascoltare perché conservata presso l’Archivio dei beni sonori e audiovisivi, a Roma. Un classico del mondo pastorale, tramandata di padre in figlio, da un villaggio all’altro, la fiaba dell’Osso che canta, , è arrivata anche a Cerqueto, da sempre paese di pastori. Il racconto fiabesco ci collega direttamente alle melanconie dei pifferi di osso, molto diffusi e sfruttati per migliaia di anni nel passato, da sempre costruiti suonati e dai pastori. Ci riporta alle diverse scoperte di flauti di osso fatte in Svevia, che risalirebbero a 30-40 mila anni fa, alla scoperta del flauto di Divje Babe, in Slovenia ancora più lontano, alle scoperte di Francia e Austria risalenti a tempi più recenti. Ci riporta alla mitologia greca, al mito delle Metamorfosi di Ovidio, alla origine della siringa, il flauto di Pan, “quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, strinse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti», disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali,mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla”. (Libro I)
I flauti d’osso, tipici della zona, sono stati recentemente costruiti nel teramano da Nevio di Michele, noto costruttore anche di zampogne zoppe, di Pretara – Isola del Gran Sasso, utilizzando un semplice stingo di pecora. Il risultato è un suono originale, un leggero soffio di vento, una particolare melodia che potremo definire un autentico suono della natura.
La fiaba è presente anche in forma di ballata e cantata in diverse parti dell’Europa settentrionale e occidentale. In prosa la ritroviamo, sotto diverse versioni, in molti paesi sia in Europa che in America, Asia e Africa . La fiaba appartiene al tipo 780 secondo l’indice Aarne-Thompson, che riguarda la classificazione delle trame delle fiabe. Nel tipo 780, solitamente, c’è l’omicidio perpetrato da uno o più fratelli ai danni di un altro. A volte ci sono tre figli di re che partono alla ricerca di una medicina miracolosa che possa guarire il padre. Il figlio minore riesce nell’impresa, là dove i più grandi hanno fallito. Invidiosi del suo successo, lo uccidono, ne seppelliscono il cadavere in un luogo isolato e tornano dal padre simulando di aver compiuto loro stessi l’impresa. Quale che sia il motivo del delitto, lo sviluppo successivo si ritrova in tutte le versioni: viene alla luce un osso dell’assassinato; una persona, di solito un pastore, lo raccoglie, decide di fare con esso uno strumento musicale , quasi sempre un flauto. Lo strumento musicale emette parole umane, rivelando il delitto commesso. I temi principali sono quelli del tradimento, dell’inganno e del giusto castigo. La musica poi, con la sua profonda essenza di mistero, rivela le arcane verità altrimenti inaccessibili e fa da padrona. In alcune versioni alla fine il figlio buono torna miracolosamente in vita, ma il finale infausto sembra più diffuso e adatto e lo spirito buono sempre miracolosamente riappare sotto forma di canto. La fiaba pare sia di origine italiana ma c’è chi sostiene che sia di origine belga o tedesca. Non possiamo essere sicuri di alcuna ipotesi, anche perché questa storia, in ogni caso, è andata a innestarsi su credenze, si è sicuramente confusa con schemi e tradizioni radicati nella mentalità popolare, come il padre vecchio e malato, la medicina magica, il pubblico ludibrio, l’intervento soprannaturale o magico che fa sì che venga scoperto un omicidio e smascherato l’assassino, il tema di una giustizia superiore che prima o poi fa emergere la verità.
A testimonianza della bontà della fiaba nell’800 i fratelli Grimm recuperano il racconto popolare, lo rimodulano e lo personalizzano e Italo Calvino la inserisce nella sua Antologia di Fiabe Italiane, pubblicate nel 1956. La fiaba, perfetta nella sua costruzione, esprime tutto il desiderio di vivere in armonia all’interno di un mondo incantato e fantastico ma profondamente significativo ed educativo. Un altro titolo della fiaba è La penna dell’uccello grifone, che è il motivo di ricerca e di contesa, o I tre fratelli, quando compaiono tre fratelli, ma è più conosciuta come L’osso che canta. È alla musica e al canto di un semplice flauto viene affidata la rivelazione del mistero celato, la capacità di poter investigare e conoscere le forme più oscure e nascoste della realtà.
Adina Di Cesare