Nel ricordo di un amico

Ogni tanto in questo periodo mi piace ascoltare un brano musicale chiamato “The sleeping sea” (il mare addormentato). E’ un pezzo per chitarra classica del musicista inglese Steve Hackett, pacato, sereno, ma allo stesso tempo drammatico. L’autore rivela che nel comporre il brano ha  immaginato il particolare contesto della città di Troia la sera precedente la sua distruzione per mano degli Achei.

Agli abitanti di Troia il mare doveva apparire calmo e silenzioso, sgombero com’era dalle navi greche, nascoste invece dietro un’insenatura nella vicina isola, mentre il cavallo di legno, germe della fine, era già stato trasportato all’interno della città. Dopo anni di assedio, gli abitanti vedevano e anelavano  il ritorno della pace e della tranquillità.
L’incedere lento del brano, che fa pensare all’apparente calma del mare quando invece esso, a poca distanza dalla città, nasconde l’insidia  della distruzione (sottolineata da alcune melodie dissonanti),  è un’evidente metafora dell’esistenza e della inevitabile fine della vita terrena. Il mare tranquillo visto come la sensazione di quiete, e a volte di letizia, che si attraversa in certi splendidi momenti della  vita, per molti purtroppo rari e brevi. La flotta greca vista, invece, come metafora degli elementi distruttivi esterni, il cavallo di legno, infine, come l’entità distruttiva interiore, che può insediarsi nel nostro corpo in qualsiasi momento a noi sconosciuto e  manifestarsi in successivi periodi altrettanto casuali e inaspettati.
Non ne capisco a fondo il motivo, ma mi trovo a pensare che questo brano sia così presente in questo periodo della mia vita perché molto spesso si affaccia con inesorabile frequenza nella mia mente il pensiero di Saro.

Di coloro che in qualche modo hanno avuto contatti con il nostro paese (per legami coniugali, per lavoro, per parentele indirette, per cariche politiche e così via), Saro è stato sicuramente la persona che più di ogni altro ne è rimasto affascinato e se ne è sentito parte integrante. Negli ultimi tempi, insieme a Lena, cercava assiduamente una casa da ristrutturare per poterci tornare a suo piacimento.
Per me era diventato un amico quasi fraterno e facevo con lui sempre lunghe chiacchierate ogni volta che tornava. Spesso mi ricordava le partite a pallone nel vecchio campo sportivo alle quali partecipava pure lui.
Gli era rimasto impresso il fatto che usavamo regolarmente la scarpata a monte come parte integrante del campo e che lì  le azioni  di gioco si svolgevano con grandi scontri sempre in precario equilibrio. Ricordava anche le difficoltà iniziali incontrate per comprendere  le regole accessorie  che poco a poco ci eravamo date e che non erano contemplate in nessun regolamento calcistico, oppure le lunghe soste quando il pallone spariva tra i cespugli delle scarpate a valle e le urla «belluine», come diceva, nelle risse o nelle polemiche quasi sistematiche.
Affermava di essersi fin da subito sentito parte della comunità. Ma questo derivava più che altro dalla sua particolare simpatia  e affabilità.
Lo scorso anno, in questo stesso periodo, mi aveva chiesto di trovargli una casa in affitto per circa un mese. La scomparsa improvvisa, e per lui dolorosissima, del suo unico fratello fece però svanire tale proposito.

Per la prossima estate voleva poi organizzare nel nostro paese una presentazione della sua, fino a quel momento unica, ma bellissima, raccolta di poesie, “Giostra di Falene” e una nuova raccolta era quasi pronta. Grazie alla sua autoironia, la lettura delle poesie a Cerqueto sarebbe stata sicuramente un avvenimento leggero, brillante ed acuto ad un tempo. Questo, tra l’altro, anche per la sottile enfasi con la quale sapeva declamarle, potenziandone l’intrinseco valore. Un pomeriggio, a casa di Rita, ci “recitò” la poesia che aveva dedicato a zio Quintino, “Al mio secondo padre”, riuscendo a creare gradualmente nei presenti uno stato di percepibile commozione.
Lo avevo sentito per l’ultima volta nei giorni successivi al Natale. Era ancora molto debole per gli inattesi postumi dovuti all’operazione. Per telefono, insieme ad altre cose, mi disse che gli era piaciuto molto il numero di novembre del giornale (l’unico tra l’altro senza una sua poesia) e che aveva qualche idea da sviluppare per alcuni prossimi suoi articoli. Del resto il primo numero del nostro piccolo giornale nacque nello stesso periodo della pubblicazione di “Giostra di Falene” e l’intervista a Saro, insieme con la pubblicazione della sua poesia dedicata a Cerqueto, furono le prime cose da inserire che ci vennero in mente. Con entusiasmo si rese subito disponibile alla collaborazione e ci fu molto vicino con i suoi puntuali e colti  consigli.

Oltre alla collaborazione con CerquetoInforma, aveva tanti altri progetti ed impegni. A Treviso collaborava nell’Università Popolare, insegnando poesia e teatro e riscuotendo, mi hanno detto, ammirazione per la sua cultura e per la sua esposizione fantasiosa. Da poco, poi, aveva finito di sistemare la sua casa in Sicilia con l’intenzione, se ne avesse trovata una adatta, di fare lo stesso a Cerqueto e sicuramente avremmo potuto apprezzare altre raccolte poetiche. Si trovava cioè in una fase importante della sua vita: dopo la pensione, maturata nella scuola come insegnante di Italiano, ed ancora relativamente giovane, avrebbe potuto dedicare le sue energie a ciò che davvero lo entusiasmava. Con la poesia poteva avvicinarsi al bisogno di assoluto di cui, diceva, adesso sentiva  l’urgenza, essendo stato colpito da grandi dolori, sia nella sua famiglia che in quella di Lena, pur avendo della religione un’idea assai personale.

Invece un intervento al cuore che doveva essere solo preventivo, una «revisione» nelle sue parole, lo ha separato per sempre dai suoi cari e dai tanti progetti.Il “mare calmo” della sua vita svanito in alcuni mesi.

Con lui se ne è andata anche la suggestiva  forma poetica che abbiamo potuto ammirare, anche se solo per poco. Forse troppo tardi aveva trovato il coraggio di pubblicare i suoi versi. L’unanime consenso che ne era seguito lo spronava a continuare ed era evidente che quella passione, taciuta per anni, ora dal suo animo aveva necessità di rivelarsi verso l’esterno. Una tensione positiva che sicuramente Saro, se il destino gliene avesse concesso la possibilità, avrebbe tradotto nel migliore dei modi. Non ho competenza per parlare del valore letterario delle sue poesie, però sicuramente riusciva a dare forma poetica a quelle percezioni della nostra vita interiore che rimangono sospese nel limbo dell’inconsapevolezza fino a quando qualcuno, i veri poeti, non le definisce e ce le riconsegna in parole chiare, coinvolgenti ed originali.

Il legame profondo che Saro aveva con Cerqueto, insieme con la sua indole schiva e minimalista, si è evidenziato anche nella sua ultima scelta di voler essere sepolto nel nostro paese, lui che era un cittadino italiano nel vero senso della parola: siciliano di nascita, veneto di adozione e con moglie abruzzese.
Sosteneva infatti che, diversamente dagli altri luoghi, così grandi che per la maggior parte dei visitatori sarebbe stato semplicemente un «piccolo rettangolo marmoreo in un’infinità di altri rettangoli», a Cerqueto si sarebbe sentito meno solo. Chiunque di noi avesse visitato il cimitero, «con vista verso il Gran Sasso e dove c’è spesso il sole», avrebbe saputo chi era Saro e conosciuto la sua storia, allo stesso modo in cui si conosce quella di tutti gli altri defunti, come in una piccola Spoon River, e avrebbe sicuramente lasciato un fiore o semplicemente rivolto un pensiero anche a lui.

Angelo Mastrodascio

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