Pastorizia e piante tintorie

La solennità del Natale con la poesia del presepio vivente di Cerqueto ci ha riportato all’ambiente pastorale del Medio Oriente con la sua attonita essenzialità. Un mondo lontano e idealizzato che ci richiama tuttavia prepotentemente alle nostre radici, al nostro mondo passato che si fondava sulla pastorizia e sull’agricoltura. Un mondo che viveva dei prodotti delle greggi, che conosceva i segreti della cardatura della lana, della tessitura domestica, della tintura della lana, dei colori offerti dalle piante spontanee. Un mondo depositario di un patrimonio di conoscenze millenarie che rischiano di cadere nell’oblio nel giro di poche generazioni se non si cerca di conservarne adeguatamente i capisaldi.L’Abruzzo è una regione spiccatamente montana, caratterizzata da un territorio interessato per il 65 % dalle montagne appenniniche, alle quali si aggiunge una fascia collinare che arriva a coprire il 34,9 % del totale della superficie regionale. Nel territorio abruzzese sono compresi i più elevati rilievi della catena appenninica, con l’imponente chiostra della catena del Gran Sasso, che culmina con i 2914 m del Corno Grande, con il massiccio della Maiella che domina i paesaggi del settore sudorientale della regione, raggiungendo i 2793 m con il monte Amaro, con il monte Velino (2487 m), terzo rilievo in ordine di altezza degli Appennini, posizionato nella catena del Velino-Sirente che attraversa il settore centrale della regione. A questi rilievi maggiori si accompagna una serie di altri gruppi montuosi, spesso solamente di poco inferiori, che da nord a sud contribuiscono a rendere complessa ed accidentata l’orografia della regione.  I Monti della Laga, i Monti Gemelli, il Morrone, i Simbruini, i Monti Carseolani, i Monti Marsicani, i Monti della Meta, i Monti Pizzi ed i Monti dei Frentani sono solo alcune delle ulteriori componenti in cui si articola il mosaico di rilievi che caratterizza l’entroterra abruzzese. In questo quadro di molteplici elevazioni strutturali il dinamismo dei processi estensivi e compressivi, ancora in corso, fa sì che siano incastonate varie conche intermontane di origine tettonica, che spesso si configurano come grandi altopiani, dove l’asprezza delle severe condizioni climatiche viene acuita dall’altitudine e dalla presenza di formidabili barriere orografiche che chiudono i bacini interni alle influenze mitigatrici dei mari. Un territorio così marcatamente segnato dalla presenza delle montagne e delle alte quote (foto n.1) nel corso della sua storia millenaria ha conosciuto la diffusione di tutte quelle attività economiche legate allo sfruttamento di ambienti nei quali era difficile l’affermazione stabile dell’agricoltura. Tra queste attività un ruolo fondamentale è stato svolto nel tempo dall’allevamento del bestiame, in particolare di quello ovi-caprino, che nei vasti pascoli appenninici ha trovato un ambiente particolarmente idoneo al suo sviluppo. Già in epoca protostorica la pastorizia di tipo transumante (foto n.2) rappresentava una delle principali forme di utilizzo delle aree montane abruzzesi, che per questo generalmente non rappresentarono mondi isolati, ma vissero e si svilupparono in stretto rapporto con le aree costiere adriatiche e tirreniche e con le pianure della Puglia settentrionale. Nel periodo italico le popolazioni sabine e sannitiche dell’Appennino centrale durante le migrazioni stagionali del bestiame già seguivano direttrici ormai consolidate lungo quei tracciati viari di fondovalle che diverranno sede di vari insediamenti urbani, come Peltuinum, in area vestina e Saepinum, nel territorio dei Sanniti Pentri. Questi centri raggiungono tuttavia il loro massimo sviluppo solo in epoca successiva alla conquista romana, allorché l’unificazione politica dei territori di soggiorno estivo ed invernale del bestiame transumante pone le premesse per un considerevole incremento della diffusione della pastorizia sui rilievi dell’Italia centrale. I Romani comprendono pienamente il notevole potenziale economico insito nello sviluppo su larga scala dell’allevamento ovino e ne favoriscono a più riprese lo sviluppo con vari provvedimenti legislativi che eserciteranno i loro effetti positivi lungo tutto l’arco temporale della loro dominazione. Quinto Fabio Pittore (260 a. C. – 190 a C.), autore degli Annales, afferma in proposito che i Romani presero coscienza dell’importanza economica della pastorizia transumante all’indomani della conquista della Sabina, territorio dove tale pratica era già largamente diffusa. Secondo Tito Livio (59 a. C. – 17 d. C.) la regolamentazione degli spostamenti del bestiame attuata dai Romani nelle aree conquistate si rivelava particolarmente redditizia per lo stato, grazie ai prelievi fiscali esercitati sulle greggi e gli armenti in transito ed alle multe comminate agli allevatori che trasgredivano le norme. L’utilizzo di itinerari prestabiliti per la transumanza consentiva ai pubblicani di organizzare stazioni fisse di riscossione delle imposte (scriptura) sui capi di bestiame di passaggio che avrebbero usufruito dell’ager publicus per il pascolo Tali stazioni sorgevano in corrispondenza degli antichi e nuovi insediamenti ubicati presso i punti di transito obbligati. La lex agraria del 111 a. C., tramandataci tramite epigrafi incise su una tavola di bronzo appartenente alla collezione Farnese e detta per questo epigrafica, sanciva il diritto all’utilizzo gratuito dei pascoli nell’ager publicus da parte di chiunque, entro il limite di dieci capi di bovini e cinquanta capi di ovini, riconoscendo inoltre la possibilità di pascolo gratuito lungo i bordi di calles (tratturi) e viae publicae durante i trasferimenti del bestiame da un luogo all’altro. Quanti esercitavano la pastorizia erano quindi esentati, entro certi limiti, dal pagamento del vectigal, tributo pagato per l’utilizzo di terre demaniali e dazio sui beni trasportati, ma erano tenuti comunque al pagamento della scriptura, canone fisso per ciascun animale che avrebbe usufruito per il pascolo dell’ager scripturarius, terreno pubblico concesso alla pastorizia. Il governo di Roma tutelava in maniera attenta i sentieri e le vie armentizie che attraversavano il territorio pubblico romano, tanto da assegnarli alla cura di uno dei magistrati. Tali percorsi, indicati come publicae calles, all’inizio del Medioevo vengono definiti tracturi, probabilmente dall’espressione latina tractoria (dal verbo traho), presente anche nei codici di Teodosio (347-395 d. C) e Giustiniano (462 – 565 d. C.), che indicava il privilegio dei funzionari pubblici e dei pastori di percorrere gratuitamente le vie pubbliche. La lex Iulia de re pecuaria, promulgata nel 46 a. C. sotto Giulio Cesare, prevedeva che i proprietari di greggi dovessero servirsi per almeno un terzo di pastori che fossero adulti liberi, allo scopo di evitare il ricorso esclusivo al lavoro degli schiavi e rendere i pastori degli uomini liberi. Presso i Sanniti, come attesta Marco Terenzio Varrone (116 a. C. – 27 a. C.) nel De Re Rustica, da sempre era diffusa la consuetudine di trasferire gli armenti e le greggi verso le pianure dell’Apulia durante la stagione fredda, ma dopo la conquista romana del Sannio, nel 290 a. C., tali migrazioni vennero potenziate e si ha notizia di spostamenti che dall’Appennino centrale si spingevano fino alla piana di Metaponto, nell’attuale Basilicata. Lo sviluppo della grande transumanza orizzontale che si verifica in questo periodo riguarda anche le proprietà di senatori ed imperatori e può avvenire solo grazie alle condizioni di pace e di certezza ed uniformità delle regolamentazioni che tutelano i diritti dei pastori. Il ruolo fondamentale che viene a ricoprire la pastorizia nel mondo romano trova la sua consacrazione anche in ambito letterario allorchè, con la nuova temperie culturale favorita dall’affermarsi della Pax Augustea, vedono la luce opere come le Bucoliche e soprattutto le Georgiche di Publio Virgilio Marone (70 a. C. – 19 a C.), che rappresentano l’esaltazione del mondo pastorale ed agricolo come palestre di quelle virtù civili che incarnano lo spirito più autentico della tradizione romana. Spirito che rischia di essere compromesso dall’urbanesimo e dai cambiamenti economici e morali conseguenti alla nascita dell’impero. La crescita dell’allevamento ovino si traduceva in un incremento della produzione di lana, prodotto che superando la tradizionale autosufficienza dell’economia pastorale italica, rappresentava anche la base di una delle principali industrie dell’antichità. Presso le popolazioni sabine, sabelliche e romane tradizionalmente buona parte della lavorazione dei tessuti avveniva in ambito domestico, sia per esigenze di abbigliamento sia di arredamento e la filatura della lana, in particolare, era portata avanti dalle donne. Tale attività s’identificava a tal punto con i compiti della donna nelle società italiche che nelle necropoli sannitiche, come quella di Aufidena (Alfedena), in Abruzzo, il simbolo del fuso distingueva le sepolture femminili da quelle maschili, contraddistinte da una lancia. La lana lavorata era quella prodotta dalle stesse greggi appartenenti alla famiglia, ma spesso essa proveniva dai grandi centri di commercio della lana situati nelle aree di svernamento delle greggi, come Luceria, nell’Apulia settentrionale, Canusium (Canosa di Puglia), nella Daunia e Taranto, città da cui provenivano le lane più pregiate prodotte sul territorio italiano. La lana prodotta nella zona di Taranto, nota in Italia come lana greca, era di tonalità bruna e particolarmente adatta a confezionare mantelli. Essa proveniva da pecore dotate di lana corta e fine, appartenenti ad una razza introdotta dai coloni greci, probabilmente originaria dell’Asia minore. In questa regione città come Mileto nella Ionia e Laodicea sul Lico erano particolarmente rinomate nell’antichità per i pregiati tessuti di lana scura, ottenuta da pecore nelle quali la selezione aveva migliorato notevolmente le caratteristiche del vello, rendendolo paragonabile a quello di razze più recenti. A Canusium la lana prodotta, nota come apula, era di colore fulvo, mentre nelle regione appenninica centrale, nel Sannio e nelle Puglia settentrionale prevaleva la produzione di lane di colore scuro e piuttosto grossolane. La produzione di lana dalla colorazione bianca, quella più adatta alla tintura, in epoca romana era ancora abbastanza circoscritta, in particolare avevano vello bianco di grande pregio le pecore allevate nella pianura veneta, ad esempio ad Altino, presso l’attuale Venezia, e nella vicina pianura emiliana, presso Parma e Modena. La diffusione di questa variante cromatica, probabilmente selezionata in Medio Oriente, era stata fortemente incentivata dai Cananei, detti poi Fenici, perché più funzionale alla produzione di stoffe colorate con la porpora, che essi commerciavano in tutta l’area mediterranea. Nello stesso periodo in aree più isolate e conservative, come l’Istria, la Dalmazia, le Alpi occidentali, le Alpi Apuane e l’Appennino settentrionale sopravvivevano invece razze ovine dalle caratteristiche molto arcaiche, dotate di manto scuro, più simile al pelo che alla lana, perché costituito ancora in buona parte dalla cosiddetta giarra, cioè peli lunghi ed ispidi, più che dal sottopelo lanoso, morbido ed ondulato, come accade negli ovini selvatici. Un’idea dell’aspetto che avevano questi ovini primitivi, dotati di scarsissima attitudine alla produzione di lana, potrebbe essere fornita dalla cosiddetta razza Massese (foto n.3), diffusa oggi soprattutto in alcuni settori della Toscana settentrionale. In questa particolare razza ovina, così come accade nel muflone tirrenico (Ovis orientalis musimon), le corna sono presenti quasi sempre anche nelle femmine, benché meno sviluppate rispetto a quelle dei maschi, caratteristica questa che nelle razze ovine più moderne è andata perduta. Il muflone, diffuso originariamente in Sardegna, Corsica ed isola di Cipro e denominato nell’antichità musimon o ophion, rappresenta il discendente inselvatichito degli ovini domestici introdotti in Europa durante il Neolitico. Infatti nelle isole dove esso vive non si rinviene  allo stato fossile nei livelli più antichi e presenta inoltre molte somiglianze con razze ovine particolarmente primitive, come la pecora Soay dell’isola di Saint Kilda, nelle Ebridi esterne scozzesi, e la pecora del Camerun, allevata in alcune regioni dell’Africa occidentale. Il vero antenato degli ovini domestici è il muflone asiatico (Ovis orientalis), distribuito allo stato selvatico sulle montagne dell’Iran, dell’Anatolia, del Caucaso, dell’Afghanistan, dell’Uzbekistan e del Pakistan, probabilmente avviato alla domesticazione in Iraq settentrionale o in Iran nel corso dell’VIII millennio a. C., per la sola produzione di carne. La produzione della lana fu un’attitudine sviluppata successivamente in area mesopotamica, intorno al VI – IV millennio a. C., quando furono selezionate razze ovine prive di giarra e dotate di abbondante sottopelo lanoso. Presso i Romani dei primi secoli, come presso gli altri popoli appenninici, inizialmente non era diffusa la consuetudine di tingere la lana, che veniva utilizzata per i tessuti nelle sue colorazioni naturali. In seguito grazie ai contatti con il mondo greco ed etrusco l’uso dei tessuti di lana colorati artificialmente si diffuse anche in ambito romano. L’industria laniera, fiorente soprattutto a Taranto, città di origine greca, in seguito ebbe grande sviluppo anche a Padova, Modena, in Istria e ad Aquileia, dove sorsero importanti tintorie. A Taranto la lana veniva tinta con la porpora secondo l’uso fenicio, ma in questa città il costoso pigmento veniva mescolato con il più economico oricello di mare, usato anche da Egizi e Cretesi, colorante rosso-violaceo estratto da alcune specie di licheni appartenenti al genere Roccella,come Roccella tinctoria e Roccella phycpsis, che vegetano sulle scogliere situate presso il litorale (foto n. 4). Nel Medioevo l’impiego di questi licheni per la tintura delle stoffe venne riscoperto nel XII dal mercante fiorentino Alamanno, detto “Oricellario”, che raccolse la roccella durante una sosta alle Isole Baleari. Egli fu il fondatore della famiglia che da lui prese il nome di Rucellai, che a seguito di questa scoperta acquisì grandi ricchezze con la tintura ed il commercio delle stoffe. I Rucellai furono committenti di numerose ed importanti opere d’arte a Firenze, tra cui la facciata della chiesa di Santa Maria Novella,  mentre nei giardini situati presso la tintoria, detti Orti Oricellari, ospitarono le riunioni di un’importante Accademia platonica, alle quali parteciparono anche Nicolò Machiavelli e papa Leone X Medici. Il pigmento che si ottiene dalle specie di Roccella e da altri licheni appartenenti ai generi Lecanora, prende il nome di orceina e si origina dall’ossidazione ammoniacale di un composto detto orcinolo, contenuto nel tallo lichenico. Presso i Romani le tintorie erano note come baphia, dal verbo greco baptein ‘immergere – tingere’ e chi esercitava l’attività di tintore era detto infector, bapheus o purpurarius. Il commediografo Tito Maccio Plauto (250 a. C. – 184 a.C.) riferisce che a Roma i tintori potevano specializzarsi nell’applicazione di singole colorazioni, così i crocearii (da crocus nome latino dello zafferano) erano specializzati nelle tinte gialle, i violarii nel viola, mentre presso le officinae purpurinae la tintura veniva effettuata solamente con i diversi tipi di porpora, da quella blu-violetta a quella rosso-scarlatta, detta tiria, cioè di Tiro. Secondo le leggi romane l’uso di quest’ultima era riservato ai magistrati, mentre solo gli imperatori potevano indossare la toga di porpora. In Abruzzo resti di una tintoria romana, che probabilmente utilizzava la porpora estratta dal murice spinoso (Haustellum brandaris) per la colorazione della lana, sono stati scoperti nell’area di Castrum Truentinum, presso la foce del fiume Tronto, nel territorio dell’attuale di Martinsicuro. Resti di una fullonica risalente al III secolo d. C., dove si svolgevano il lavaggio e la tintura di stoffe, sono state rinvenute anche a Teramo, nell’area dell’attuale piazzale della Madonna delle Grazie. La porpora è un pigmento prodotto da vari molluschi muricidi appartenenti ai generi Haustellum, Thais, Hexaplex e Purpura, ma le specie originariamente utilizzate dai Fenici erano essenzialmente Haustellum brandaris (foto n.5) e Thais haemastoma, entrambe presenti nel mare Adriatico, anche se la seconda vive solo su substrati rocciosi. Le denominazioni di Cananei, Fenici e Punici (le ultime due derivanti dal greco phoinikes), attribuite agli abitanti delle città della Fenicia ed ai loro discendenti cartaginesi, traggono tutte origine proprio dal colore rosso porpora dei tessuti che essi commerciavano. La porpora, detta in latino anche conchilium o ostrum, è il prodotto delle ghiandole ipobranchiali dei molluschi, ma la sua colorazione definitiva viene assunta, per una reazione fotochimica, solo dopo un certo periodo di esposizione alla luce, durante il quale essa assume prima colore verde, poi blu e successivamente rosso, mentre inizialmente presenta una tinta biancastra. Nell’antichità dagli estratti delle stesse conchiglie era quindi possibile ottenere differenti colorazioni, inoltre spesso si utilizzavano in successione pigmenti ottenuti da diverse specie di molluschi, ampliando in questo modo notevolmente la gamma delle tinte e delle sfumature possibili. La composizione chimica della porpora prodotta da Haustellum brandaris è stata individuata nel 1909 da P. Friedländer, che da 12.000 murici provenienti dal Mediterraneo ottenne solo 1,4 grammi di porpora pura o di Tiro, costituita da 6:6 dibromoindigotina, un composto abbastanza simile all’indaco. Nella quarta bucolica Virgilio, riferendosi all’imminente ritorno dell’età dell’oro, afferma che la lana non dovrà più imparare a dissimulare il proprio colore, ma spontaneamente nei prati l’ariete cambierà la tinta del proprio vello, prima rosso porpora, poi giallo zafferano, mentre gli agnelli si tingeranno di scarlatto durante il pascolo. Un riferimento evidente ai grandi costi che comportava la tintura della lana con pigmenti preziosi come la porpora prodotta dai murici, il giallo ottenuto dagli stimmi dello zafferano (Crocus sativus) e il vermiglio ricavato dalla cocciniglia (Kermes vermileo), che si sviluppa sulla quercia spinosa (Quercus coccifera) (foto n. 6) in Gallia, Iberia, Grecia e Galazia. Il pigmento vermiglio veniva ottenuto dai corpi essiccati delle femmine della cocciniglia che parassita le querce. Questi insetti hanno forma sferica di grani, detti in greco kokkos, con il significato di ‘bacca, chicco’, sostantivo da cui derivano il termine coccifera, con cui si indica la specie di quercia, nonché la parola cocciniglia. Gli antichi pensavano che questi grani contenessero un verme, supposizione all’origine del termine vermileo, cioè vermiglio. Gli Arabi chiamarono questo pigmento qirmiz, termine che è all’origine sia dei nomi dei colori cremisi e carminio, sia del sostantivo spagnolo alquermes, da cui deriva l’appellativo italiano alchermes, usato per il liquore di origine fiorentina colorato in rosso con la cocciniglia. Il principio attivo che conferisce la colorazione rossa al Kermes vermileo è l’acido chermesico (chermes). Dopo la scoperta dell’America si è estratto il pigmento rosso carminio dalla cocciniglia Dactylopius coccus, che vive sul fico d’India (Opuntia ficus-indica) ed utilizza tale sostanza come difesa dai predatori. Questo colorante, che chimicamente è acido carminico, era già noto agli Aztechi e ne fu avviata una larga produzione nelle colonie spagnole americane, mentre i tentativi di far ambientare l’insetto che lo produce nei paesi mediterranei non hanno avuto esito positivo, tranne che nelle isole Canarie. Molto prima che si diffondesse l’impiego della porpora, dello zafferano e del vermiglio per la colorazione dei tessuti nell’Europa protostorica ed in Medio Oriente erano già in uso tinture di origine vegetale prodotte da specie vegetali autoctone, come testimoniano vari reperti archeologici, tra i quali si possono ricordare quelli rinvenuti presso il lago di Ledro, in Trentino, ove era insediata una comunità di palafitticoli dell’età del bronzo (2200 a.C. – 1350 a.C.). Da questo sito sono emerse prove dell’impiego di piante tintorie come il guado (Isatis tinctoria), la robbia (Rubia tinctorum) e l’uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi), delle quali le prime due erano utilizzate anche nell’antico Egitto. Quelle stesse specie vegetali, insieme a poche altre, continuarono ad essere utilizzate per millenni dai popoli europei ed ancora in epoca romana in Italia e nel resto d’Europa rappresentavano la fonte principale di alcune delle tradizionali tonalità cromatiche dei tessuti. Plinio il Vecchio (23 d.C. – 79 d.C.) afferma in proposito che ai suoi tempi i popoli dell’Europa settentrionale non sfidavano i pericoli dell’oceano per concedersi il lusso della porpora, ma si accontentavano dei colori offerti dalle piante locali, ottenendo buoni risultati, nonostante si obiettasse che quelle colorazioni fossero poco durevoli.
Nel 383 d. C. un editto di Graziano, Valentiniano II e Teodosio vietò il commercio delle migliori qualità di porpora nei paesi dell’impero romano, determinando così la progressiva scomparsa del prezioso pigmento, la cui produzione e manifattura divenne monopolio dello stato.

Le invasioni barbariche che seguirono, con il crollo dell’Impero Romano d’Occidente ed il lungo perdurare di condizioni di profonda insicurezza, segnarono inevitabilmente il declino della grande pastorizia transumante, accompagnato dal ritorno a regimi di autosufficienza economica per molte delle comunità insediate nei territori montani. Il moltiplicarsi delle giurisdizioni e delle frontiere determinato dalla coesistenza di popoli e stati contrapposti ed ostili, quali gli avamposti bizantini e i ducati longobardi, finì peraltro per favorire l’intreccio delle residue migrazioni pastorali con attività illegali. Per i territori abruzzesi questo marcato periodo di stasi si protrasse fino all’epoca normanna, quando il nuovo assetto territoriale, con il riaccorpamento dei territori appenninici e delle pianure pugliesi, pose le premesse per una significativa ripresa dell’allevamento ovino transumante. Questo recupero fu significativamente agevolato dal progressivo ripristino di un quadro normativo finalizzato alla tutela dei pastori e delle loro migrazioni, frutto di un preciso riconoscimento della loro importanza ai fini dello sviluppo economico del nuovo regno. Questa azione prende l’avvio con la Costituzione del 1155 di Gulielmo I di Sicilia, detto il Malo (1131 – 1166) e viene successivamente ampliata nel 1172 da Guglielmo II di Sicilia, detto il Buono (1153-1189), con l’assise “De Animalibus in pascuis affidandis”. Va aggiunto che con il regno normanno larghe porzioni del Tavoliere di Foggia entrano a far parte del regio demanio, situazione che facilita la concessione di ampi privilegi di pascolo ai pastori transumanti che usufruiscono di tale territorio strategico. Tutti questi provvedimenti vengono successivamente recepiti ed ampiamente confermati con la successiva codificazione dell’imperatore Federico II di Svevia (1194 – 1250), ad esempio tramite la Costituzione “Ut delicti fines” e con l’istituzione di una speciale amministrazione che assume il nome di “Mena delle pecore in Puglia”, destinata a sovrintendere a tutto il settore della pastorizia. Il susseguente periodo angioino fa registrare una nuova crisi della pastorizia, ma con il subentrare degli Aragonesi (1443) la situazione si risolleva rapidamente sulla scorta delle positive esperienze di gestione da tempo avviate nella penisola iberica. Nel 1447 Alfonso I d’Aragona il Magnanimo (1394 – 1458) istituisce la Regia Dogana della Mena delle Pecore in Puglia, con sede inizialmente a Lucera e poi a Foggia, che viene sostenuta da un complesso di norme che garantiscono una gestione stabile della pratica della transumanza, basata su regole rigide riguardanti la circolazione del bestiame e la tutela dei diritti dei pastori. La nascita della Dogana di Foggia era stata preceduta nello Stato Pontificio dall’istituzione da parte di Bonifacio IX della Dohana pecudum nel 1402, successivamente divenuta Dogana dei Pascoli del Patrimonio di San Pietro in Tuscia e di Marittima e Campagna. Tale istituto fiscale era destinato a regolare gli spostamenti stagionali del bestiame nella Tuscia e nella maremma laziale attraverso il riconoscimento del diritto al libero passaggio delle greggi in cambio di una tassa di salvacondotto. Risale invece al 1419 la creazione della Dogana dei Paschi da parte della Repubblica Senese, altro esempio di efficiente organizzazione statale finalizzata ad assicurare il razionale sfruttamento della risorsa dei vasti pascoli (paschi) della maremma senese. Lo Statuto dei Paschi, redatto nello stesso anno, porrà le basi per la nascita nel 1472 di un Monte di Pietà che nel 1624 assumerà la denominazione di Monte dei Paschi, l’istituzione bancaria di origine più antica tra quelle ancora esistenti. Sotto gli Aragonesi, tra il 1435 ed il 1442, si iniziò a portare avanti un programma di miglioramento delle razze ovine presenti in Puglia finalizzato all’incremento dell’attitudine alla produzione di lana. Questo programma, forse già partito sotto Federico II di Svevia, si basò su incroci con arieti di razza merino importati dalla Spagna. Quest’ultima razza ovina, produttrice di lana pregiata particolarmente morbida e sottile (fibre di diametro inferiore a 24 micron), si era originata nella penisola iberica intorno al secolo XI, durante il dominio arabo, a seguito dell’introduzione dal Marocco di capi appartenenti ad una razza allevata dalla popolazione nomade berbera dei Banu Marīn, dalla quale derivò la dinastia dei sultani Merinidi, che regnò nel Maghreb tra il 1240 ed il 1465. La razza merino o merinos rimase per secoli esclusiva della penisola iberica, fino a che nel 1786 secolo, Luigi XVI di Borbone, re di Francia, riuscì ad acquistarne circa 300 capi per la tenuta reale di Rambouillet dal cugino Carlo III di Borbone, re di Spagna. A seguito degli incroci portati avanti sotto gli Aragonesi con gli ovini appartenenti alle originarie razze autoctone di ceppo appenninico, note come pecore Carfagne o Garfagne, si originò la razza merinizzata italiana Gentile di Puglia, anch’essa buona produttrice di lana, che gradualmente raggiunse grande diffusione in Puglia, Molise ed Abruzzo meridionale, dando inoltre origine alle razze Gentile di Lucania e Gentile di Calabria, ora pressoché estinte. Con l’appellativo di pecore Carfagne o Garfagne venivano indicate pecore di ceppo appenninico piuttosto primitive, produttrici di lana ispida e di colore scuro, di qualità decisamente mediocre. Il nome di Carfagne o Garfagne probabilmente è un indizio della parentela di questa razza, ora scomparsa, con le pecore allevate nella Garfagnana, territorio della Toscana settentrionale, dove ancora oggi sopravvivono razze ovine arcaiche, come la Garfagnina, piuttosto simile alla Massese, anche per la presenza di corna nelle femmine, ma dotata di vello di colore chiaro. La Garfagnana, la Lunigiana e le vicine aree dell’Appennino settentrionale comprese tra Toscana ed Emilia-Romagna, forse per la loro posizione geografica piuttosto defilata rispetto ai grandi flussi migratori, rappresentano una zona di conservazione di razze ovine di antica origine, infatti, in questi territori sono pure distribuite le razze Cornella bianca e Zerasca, anch’esse contraddistinte dalla presenza di caratteri arcaici. Queste razze ovine hanno conosciuto nel recente passato una forte contrazione della consistenza numerica, tanto da rischiare l’estinzione, ma come nel caso delle specie selvatiche, la loro salvaguardia assume notevole importanza ai fini culturali, scientifici ed economici. Lo studio delle popolazioni domestiche relitte consente, infatti, di ricostruire l’evoluzione delle razze ovine nel territorio italiano correlandola alle vicissitudini storiche del popolamento umano. Inoltre queste razze spesso presentano buona attitudine alla produzione di carne e latte dalle peculiari qualità. Tra la seconda metà del 1700 ed il 1830 un ulteriore tentativo di costituire una razza merinizzata italiana diede origine alla pecora Sopravissana, ufficialmente riconosciuta solo nel 1942, che fu ottenuta a partire dall’incrocio di alcuni arieti merinos Rambouillet, ricevuti in dono dal cardinale Adani, con pecore appartenenti alla razza Vissana, di ceppo appenninico, diffusa sui monti Sibillini, soprattutto presso Visso ed Ussita, nello Stato Pontificio. La nuova razza nata dall’incrocio con la Vissana, buona produttrice di carne, si distinse per la triplice attitudine alla produzione di lana, carne e latte e si diffuse presto nelle Marche, in Abruzzo, nel Lazio, in Umbria ed in Toscana. L’incremento della produzione di lana alimentava un’industria laniera che oltre a rappresentare la principale opportunità produttiva per le zone montane doveva soddisfare le esigenze della popolazione della città di Roma. Tale industria era allora piuttosto diffusa nello Stato Pontificio, dove lanifici e gualchiere erano da secoli capillarmente distribuiti nelle zone montane dell’Umbria e delle Marche, raggiungendo talora elevate concentrazioni, come accadeva nel comprensorio dei monti Sibillini, dove a Norcia, alla fine del 1600, si contavano ben 17 lanifici. Nel vicino Abruzzo, nonostante la presenza storica di enormi quantità di ovini, soprattutto tra il XVI ed il XVII secolo, lo sviluppo dell’Arte della Lana non fu affatto corrispondente alle potenzialità che la situazione poteva offrire. Probabilmente la lontananza dalla capitale del regno e la difficoltà delle comunicazioni dovuta al territorio impervio, alla scarsità di strade sicure e di porti importanti, relegò per secoli la regione in uno stato di remoto e appartato isolamento, ben sintetizzato dall’espressione usata da Giovanni Boccaccio nella novella di Calandrino e l’elitropia, “più là che Abruzzi”. Inoltre mancò decisamente quell’azione di indirizzo e di controllo che fu esercitata in modo costante e rigoroso da qualificati organismi statali all’interno dei territori dello Stato Pontificio. Sappiamo ad esempio che nel 1231, durante il regno di Federico II di Svevia, nell’intero territorio abruzzese erano attive solamente quattro tintorie ufficiali, un numero certamente molto esiguo. Sotto gli Angioini il commercio dei tessuti e della lana in Abruzzo fu controllato essenzialmente da compagnie di mercanti fiorentini, senesi ed umbri, che spesso scambiavano i tessuti realizzati in patria con prodotti agricoli locali. La cattiva qualità delle lane prodotte in Abruzzo durante il Medioevo, in buona parte ancora provenienti da greggi di pecore carfagne, consentiva un uso essenzialmente locale dei tessuti grossolani con esse prodotti. Nelle città ove era organizzata l’Arte della Lana, come L’Aquila ed Atri, ci si limitava alla produzione di tessuti definiti “carfagni” o “scarfagnani” che erano assorbiti quasi esclusivamente dal mercato locale. I grandi centri lanieri italiani dell’epoca, come Milano e soprattutto Firenze, che durante il 1300 contava 300 laboratori artigiani, producevano tessuti ispirati alle manifatture francesi e delle Fiandre utilizzando soprattutto lane merinos provenienti dall’Aragona (lana di San Matteo), dall’Algarve (lana di Garbo), dal Marocco e successivamente anche lana inglese. Le lane provenienti dalla Toscana, dal Lazio, dalla Sardegna e dalla Puglia erano invece utilizzate per la produzione di panni andanti. Oltre all’Arte della Lana a Firenze esisteva anche l’Arte dei Mercanti o di Calimala, che riuniva quanti commerciavano tessuti di lana prodotti altrove. Entrambe le arti curavano anche la tintura dei tessuti con pigmenti naturali, quali cocciniglia (scarlatto), oricello, robbia, guado, etc. secondo una regolamentazione molto rigida. Dal 1378 per un certo periodo i tintori di Firenze riuscirono ad organizzarsi in una propria corporazione autonoma, suddivisa in un’Arte Maggiore, che utilizzava vari tipi di pigmenti, un’Arte Minore, specializzata nella tintura con la robbia (Rubia tinctorum), che forniva colori rossi ed un’Arte del Guado, specializzata nella tintura con il guado (Isatis tinctoria), che forniva tinte azzurre di varie gradazioni. Questa grande specializzazione consentiva di raggiungere risultati di grande effetto partendo sempre da prodotti naturali molto semplici. Il quattrocento rappresenta un periodo di grande incremento della produzione e della richiesta di lana, che attraverso quella che è stata definita “Via della Lana” dalle montagne abruzzesi affluisce verso Firenze e verso Napoli. Durante questo secolo anche in Abruzzo si registra un significativo miglioramento qualitativo nella produzione di tessuti ed iniziano a delinearsi delle aree dove l’industria laniera raggiunge un apprezzabile livello di specializzazione. Tra questi distretti emerge in particolare il versante orientale della Maiella, con i centri Taranta Peligna, Fara San Martino, Palena e Lama dei Peligni. A Taranta Peligna ci si specializza nella realizzazione di pregiati tessuti di lana feltrata, battuta nelle locali gualchiere, noti come “tarante” o “tarantole”, utilizzati per la realizzazione di mantelli, gabbani ed altri abiti. Tali tessuti spesso sono tinti di blu con il guado coltivato localmente, ma la maggior parte delle tintorie viene a concentrarsi a Fara San Martino. Questa produzione raggiunge il suo culmine nel corso del XVI secolo, quando i tessuti di Taranta si diffondono nei mercati dell’Italia meridionale. Parallelamente si sviluppa la produzione di coperte vivacemente colorate, ornate secondo motivi tradizionali di ispirazione locale, anch’esse molto apprezzate, soprattutto nelle versioni più recenti completamente reversibili. La nascita di queste manifatture è favorita dalla ricchezza di acque e di sorgenti che scaturiscono dall’acquifero della Maiella (fig.n.7), agevolando il funzionamento di gualchiere, lanifici e tintorie, inoltre il versante orientale della Maiella è molto prossimo al tragitto del tratturo Centurelle – Montesecco, che è un ramo del Tratturo Magno o Regio Tratturo L’Aquila – Foggia. In tempi abbastanza recenti la realizzazione delle tarante è purtroppo quasi cessata a causa della concorrenza delle moderne produzioni industriali. Tuttavia, nonostante le distruzioni causate dalla Seconda Guerra Mondiale e la crisi degli ultimi decenni, si mantiene tuttora viva a Taranta Peligna la produzione dei tradizionali copriletti abruzzesi grazie alla presenza di alcuni moderni lanifici che, reinterpretando gli stilemi del passato, possono soddisfare sia le esigenze del mercato locale, sia le richieste che vengono dai turisti. Anche a Sulmona, sul versante opposto della Maiella, l’attività laniera ha avuto un certo sviluppo ed ancora oggi continuano la loro attività alcune aziende specializzate nella produzione di coperte tradizionali abruzzesi. Nel corso del XVII secolo un ulteriore centro di produzione di “coperte” da letto, tavola e bancale, colorate secondo motivi ornamentali di tipo medioevale, fu Castel di Sangro, al quale presto si accompagnò Pescocostanzo, che acquistò notorietà per i raffinanti “tappeti” realizzati secondo uno stile d’ispirazione orientale. Gli elevati costi ed i lunghi tempi di realizzazione di tali pregiati manufatti hanno decretato comunque la scomparsa di quest’artigianato di qualità fin dai primi anni del XX secolo, nonostante qualche infruttuoso tentativo di rilancio. A Penne fiorì invece l’artigianato degli arazzi, che si è conservato fino ai nostri giorni, mentre in provincia di Teramo si può ricordare la produzione, ancora attiva, di coperte e paliotti ad Azzinano, presso Tossicia, realizzati secondo i metodi tradizionali in tessuto di lana pesante e multicolore, tipico di alcune zone del versante settentrionale del Gran Sasso. I paliotti, il cui nome deriva del latino pallium ‘velo’, sono paramenti decorativi di stoffa, cuoio o altri materiali usati per ornare la faccia anteriore degli altari. Tessuti di lana erano prodotti anche a Pietracamela, dove fino a tempi non troppo lontani fu attiva una gualchiera. I manufatti della tessitura della lana presentavano comunque sull’intero territorio abruzzese una diffusione generalizzata e capillare grazie all’attività dei numerosissimi telai domestici. La tintura tradizionale della lana era spesso effettuata in ambito domestico o presso semplici tintorie ricorrendo in origine a pigmenti ricavati da specie vegetali diffuse localmente o coltivate all’uopo. Per fissare alle stoffe i pigmenti che non avevano affinità con le fibre di lana era necessario ricorrere al mordente, un composto chimico che combinandosi con il colore lo rendeva insolubile in acqua, legandolo permanentemente al tessuto. Tale processo, detto di mordenzatura, era gia noto agli antichi Egizi. Per la tintura della lana essi impiegavano come mordente l’allume di potassio o allume di rocca (solfato doppio di alluminio e potassio dodecaidrato), minerale del quale esistevano vari giacimenti nel Vicino Oriente. Anche in Italia tradizionalmente in passato era impiegato l’allume, che proveniva soprattutto dalle cave di Allumiere, sui monti della Tolfa, nel Lazio, scoperte nel 1462. I mordenti principali si possono suddividere in potassici e tanninici, tra i primi, che contengono potassio, figurano l’allume, il bitartrato di potassio o cremore di tartaro e la cenere di legna. Tra i secondi si hanno cortecce di alberi, radici e galle (noce di galla) contenenti elevate concentrazioni di tannini. Solitamente i mordenti erano disciolti o lasciati in infusione in acqua calda ad una temperatura compresa tra i 70 ed i 90°C e vi si immergeva poi la lana in fiocchi, in filo o già tessuta per circa un’ora. La mordenzatura non è necessaria per i coloranti definiti diretti, come lo zafferano e l’oricello, che sono in grado di legarsi direttamente alle fibre. I cosiddetti coloranti al tino, come il guado e l’indaco, ugualmente non richiedono la mordenzatura, ma necessitano comunque di un processo di preparazione piuttosto complesso, che ne determini la riduzione, rendendoli solubili ed in grado di introdursi nelle fibre. I coloranti rossi e gialli, come la robbia e la camomilla dei tintori, necessitano invece solitamente della mordenzatura per legarsi ai tessuti. In quest’ultimo caso la fase della tintura vera e propria avveniva mediante un bagno nel colore. Nella cosiddetta tintura al tino si utilizzavano grandi recipienti di argilla o metallo riscaldati, nei quali venivano immersi in acqua la lana o il tessuto con il colorante. Il tutto veniva quindi portato ad ebollizione agitando continuamente per favorire la penetrazione uniforme del pigmento tra le fibre. Nel caso della lana per ottenere una distribuzione omogenea del colore era necessario un periodo di ebollizione piuttosto lungo. Poiché le molecole dei coloranti in questo caso sono insolubili, ad essi si aggiungeva un agente riducente, come l’idrosolfito di sodio, che ne aumentava la solubilità, convertendoli in una forma incolore, definita forma “leuco”. In seguito, con l’esposizione all’aria, l’ossidazione dovuta al contatto con l’ossigeno ripristinava il colore originario del pigmento che ormai impregnava il tessuto. Per ottenere colorazioni più intense il bagno nel colore poteva essere ripetuto due o più volte, mentre alcune tinte particolari si ottenevano sottoponendo il tessuto realizzato con fiocchi di lana già colorata ad una seconda tintura con un diverso pigmento. In questo modo era possibile avere tinte peculiari, ora cadute in disuso, come isabellino, lionato, cremisi, incarnato, petto di tortora, etc. Tra le piante tintorie tradizionalmente più impiegate nelle aree montane del teramano figura il guado (Isatis tinctoria L. subsp. tinctoria) (foto n.8),detto anche guado dei tintori, glasto, pastello o indaco europeo, una specie erbacea a ciclo di vita biennale appartenente alla famiglia delle Brassicacee o Crucifere. Il guado è stato per secoli praticamente l’unica specie vegetale europea in grado di fornire le colorazioni che vanno dall’azzurro al blu, (foto n.9) tinte che furono molto ricercate, soprattutto in epoca tardomedioevale e rinascimentale, data il loro valore emblematico di nobiltà, idealismo, pacatezza e trascendenza. Questo spiega perché in alcuni periodi storici il pigmento ricavato dalla pianta acquisì un tale valore da essere riguardato come una sorta di “oro blu”. Nonostante il pieno inserimento del guado nella vegetazione naturale di varie zone della nostra penisola sussistono molti dubbi sull’indigenato di questa pianta in Italia, dal momento che secondo vari autori la specie sarebbe originaria delle aree steppiche del Vicino Oriente e solo introdotta in Europa ed in Italia, in epoca protostorica. Il guado, come si è detto, rientra nel novero delle piante tintorie fin dalla preistoria, tuttavia anche la circostanza che le sue denominazioni latina ed italiana abbiano origine straniera depone in favore della provenienza da altre aree geografiche. Il nome guado deriva probabilmente dall’antico sassone wad o waad, che è anche all’origine delle denominazioni inglese e tedesca della pianta, rispettivamente woad e waida, nonché dell’olandese wede. In lingua francese il guado possiede numerose denominazioni, come pastel, pastel des teinturiers, guède, herbe de saint Philippe, bleu de Picardie. Tale pluralità di appellativi si spiega con il fatto che per un lungo periodo la coltura di Isatis tinctoria ha trovato ampia diffusione in diverse regioni francesi, come la Linguadoca, la Provenza e la Normandia. Glastum, vitrum o isatix sono invece i nomi con i quali la pianta veniva indicata dagli autori latini, come Plinio il Vecchio. Il nome vitrum probabilmente fa riferimento al fatto che dal guado si può ottenere una colorazione azzurro chiara, simile a quella del vetro. Il termine glastum è invece di probabile origine celtica, presso queste popolazioni il nome della pianta sarebbe stato infatti glaston, derivante da un glas con il significato di ‘blu – verde’. A questo proposito si può notare anche la somiglianza del sostantivo glaston con la denominazione del vetro in inglese, che è glass. Per quanto concerne il termine pastello, dal quale derivano espressioni di uso comune come “blu pastello” o “pastelli da disegno”, esso trae origine dal fatto che le foglie della pianta erano macinate in appositi mulini per essere ridotte ad una sorta di pasta, che veniva fatta macerare, fermentare ed essiccare. Nelle regioni della Francia dove la coltivazione del guado raggiungeva maggiore diffusione la pasta ottenuta macinando le foglie era modellata manualmente in sfere del diametro di circa 15 cm, che, dopo una sorta di doppia fermentazione, venivano fatte essiccare all’aria per 15 giorni. Tali sfere erano chiamate localmente coques o cocagnes nella lingua occitana del Midi. Tra il quattrocento ed il seicento la coltivazione del guado apportò una rilevante prosperità economica ai territori francesi compresi tra le città di Tolosa, Carcassona ed Albi, tanto che l’espressione pays de cocagne, da cui trae origine l’italiano “paese di cuccagna”, divenne nell’immaginario comune degli europei contemporanei sinonimo di luogo di straordinaria ed inusitata abbondanza. Motivo che traspare, chiaramente nelle rappresentazioni del Paese di Cuccagna, come quella del 1567 del pittore fiammingo Bruegel il Vecchio. La passata diffusione della coltura del guado può spiegare perché ancora oggi il blu pastello rappresenti il colore tipico della Provenza, così largamente diffuso, dagli infissi delle abitazioni ai tappeti, fino alla tela blu prodotta presso la città di Nîmes, detta per questo tessuto denim. Tale tessuto, originariamente colorato con il guado, era usato per confezionare i pantaloni indossati dai marinai genovesi, per questo motivo era noto come blue de Genes, espressione che in inglese divenne blue jeans. In Germania la coltivazione del guado ebbe il suo maggiore centro di diffusione in Turingia, nella zona di Erfurt, dove la piovosità media annua si attesta su circa 500 mm ed il clima presenta una netta connotazione continentale. Il grande numero di chiese medioevali che valsero alla città di Erfurt l’appellativo di Roma della Turingia (foto n.10) si deve anche ai grandi profitti provenienti dal commercio del guado. Secondo Giulio Cesare ed altri autori latini il guado era ampiamente utilizzato nell’antica Britannia e nella Caledonia preromana, inoltre il pigmento da esso ricavato era impiegato da alcune popolazioni per tingersi il corpo ed effettuare tatuaggi blu sul volto e sulle braccia. Tale singolare consuetudine mirava forse a rendere più terrifico l’aspetto dei guerrieri, tuttavia si suppone che il guado potrebbe anche aver rivestito la funzione di cicatrizzante, viste le sue proprietà disinfettanti e fungicide. Questa abitudine valse ad una delle popolazioni dell’antica Scozia l’appellativo latino di Picti (dipinti), che potrebbe essere all’origine del nome dei Pitti, misterioso popolo, di lingua forse non indoeuropea, scomparso durante l’alto Medioevo. In territorio italiano il guado fu oggetto di coltivazione a fini tintorii in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e soprattutto Umbria, nella zona di Nocera Umbra e di Gualdo Tadino, regione quest’ultima alla quale è legata la tradizione delle tovaglie perugine, tinte in blu con il guado. In Abruzzo Isatis tinctoria fu coltivata in passato soprattutto nell’aquilano, dove le condizioni climatiche sono particolarmente rispondenti alle esigenze della specie. Infatti, benché da quasi due secoli ne sia stata abbandonata la coltura, oggi la pianta è ancora molto diffusa in vari settori della provincia aquilana, dove si comporta alla stregua di un’entità del tutto spontanea. La presenza di Isatis tinctoria si evidenzia facilmente soprattutto quando la pianta è in fioritura, ma anche quando è in fase di fruttificazione. Allorché si trova nel pieno del suo sviluppo, nella tarda primavera del suo secondo anno di vita, il guado raggiunge un’altezza compresa tra i 40 ed i 120 cm, allora la pianta produce fusti ramificati sormontati da inconfondibili infiorescenze, costituite da densi racemi di piccoli fiori di colore giallo intenso, muniti di quattro petali lunghi 3-4 mm (foto n.11). In Abruzzo la fioritura del guado ha luogo tra la fine di aprile ed i primi di luglio, secondo la quota. I frutti che seguono l’emissione dei fiori sono tipiche silique pendule, di colore prima verde e poi bruno scuro, lunghe circa 2 cm, molto evidenti nei prati secchi durante il periodo estivo. Nei luoghi dove la specie è particolarmente diffusa la fioritura può presentare carattere massivo e conferire una vivace nota di colore al paesaggio. Le foglie del guado, presenti anche durante la stagione invernale, sono di colore verde-glauco, cerose, piuttosto strette, lunghe tra i 7 ed i 9 cm. Durante la stagione fredda formano una specie di rosetta presso il suolo. In Abruzzo, come si è detto, la presenza di Isatis tinctoria si concentra soprattutto nelle conche interne dell’aquilano, dove la specie vegeta nei prati aridi, negli incolti ed al margine dei coltivi, probabilmente come residuo delle antiche coltivazioni. Al contrario la pianta è oggi molto rara o del tutto assente nel teramano e nelle zone costiere, benchè anche qui sia stata coltivata in passato. Il guado è invece abbastanza frequente nei territori posti alle falde della Maiella. Questa distribuzione si può spiegare con la predilezione della specie per le aree steppiche, soggette ad un clima continentale o mediterraneo-montano, caratterizzato da una piovosità piuttosto ridotta ed aridità estiva. In Italia Isatis tinctoria è presente in tutte le regioni, ma si presenta diffusa soprattutto nelle zone più interne, laddove il clima sia sufficientemente asciutto, come il Piemonte, la Valle d’Aosta, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche. Compare in genere lungo tutto l’Appennino, ma solo nei luoghi più idonei, nonché in Puglia, sul Gargano, in Sicilia ed in Sardegna. Nelle regioni meridionali italiane la specie tende ad essere perenne più che biennale e presenta maggiore pubescenza, tanto che per questa forma è stata proposta la denominazione di Isatis canescens. I maggiori rilievi appenninici dell’Italia centrale e le Alpi occidentali ospitano invece il glasto dell’Appennino o di Allioni (Isatis apennina Ten. ex Grande), una vistosa specie perenne glareicola, colonizzatrice cioè dei vasti ghiaioni che discendono lungo i versanti montani. Le foglie del guado contengono il pigmento indigotina, che non è tuttavia immediatamente disponibile in forma libera, ma si ottiene da un precursore, il glicoside detto isatano B (da Isatis), costituito da un indossile legato ad una molecola di glucosio. Durante l’estrazione del pigmento l’aggiunta di composti alcalini, come carbonato di calcio o idrossido di sodio, facilita la separazione dell’indossile dal glucosio da parte dell’enzima isatasi. I radicali indossili reagendo tra loro generano la leucoindigotina, di colore chiaro, che in seguito ad ossidazione all’aria diventa indigotina, di colore azzurro. La leucoindigotina solubile si può formare durante la fermentazione delle foglie del guado nei tini grazie all’azione del batterio Clostridium isatidis, solitamente presente sulle foglie, che è in grado di effettuare la riduzione. L’indigotina ha un comportamento idrofobico e non è solubile in acqua, tende quindi a precipitare e può essere separata dall’acqua ed essiccata. Il pigmento si ottiene soprattutto dalla foglie delle piante giovani, che formano una sorta di rosetta di colore verde glauco, poco al di sopra del livello del suolo. Le foglie solitamente si prelevano durante il primo anno di vita della pianta e non andrebbero tagliate, ma estirpate per ridurre le possibilità di contatto dei liquidi interni con l’aria. Dopo ogni prelievo le foglie spuntano nuovamente, perciò nel corso della bella stagione possono essere effettuate tre o quattro raccolte. Dal periodo in cui inizia a svilupparsi lo stelo fiorale, durante il secondo anno di vita della pianta, le foglie solitamente non vengono più utilizzate per la produzione del colorante. L’estrazione si può effettuare lasciando macerare le foglie in acqua calda portata ad ebollizione e successivamente lasciata alla temperatura di circa 50 °C per circa 3 ore, oppure in acqua che si trova alla temperatura di circa 20°C, per circa 24 ore, aggiungendo carbonato di calcio o idrossido di sodio (quest’ultimo in presenza di elevati quantitativi di foglie). La soluzione così ottenuta viene quindi aerata per agitazione, facilitando la reazione di ossidazione che porta alla genesi di indigotina, composto che tende a precipitare. Dopo un periodo di decantazione si elimina la parte liquida della miscela ed il pigmento viene fatto essiccare, quindi ridotto in polvere o sagomato in piccoli pani. Questa fase può essere velocizzata ricorrendo alla centrifugazione. La tintura della lana può essere effettuata anche direttamente con le foglie della pianta, sottoponendole a macerazione in acqua per circa 12 ore e riscaldando poi il tutto fino a 50 ° C con l’aggiunta di carbonato di calcio ed idrosolfito di sodio. La leucoindigotina ridotta conferisce alla soluzione una colore giallastro che tende all’azzurro presso la superficie dell’acqua. A questo punto la lana viene immersa nel bagno che è mantenuto alla temperatura di 50 °C. Questa fase dura circa mezz’ora, dopo di che la lana viene esposta all’aria per far manifestare il colore. La coltivazione del guado in Italia è stata praticata fino ai primi anni dell’ottocento, sebbene già nel corso del secolo precedente essa avesse subito una considerevole contrazione a causa della crescente diffusione del colorante ottenuto all’indaco asiatico (Indigofera tinctoria L.), che era coltivato nelle colonie britanniche asiatiche, in Africa ed in America. Durante le guerre napoleoniche il blocco continentale determinò una certa ripresa della coltura del guado, ma in seguito essa declinò rapidamente, fino a scomparire, a causa della migliore qualità del pigmento prodotto dall’indaco. Conosciuto ed apprezzato da millenni l’indaco era noto presso i Romani come indicum purissimum, in relazione alla sua provenienza dall’India. Da tale denominazione trae origine il nome inglese indigo, in seguito esso fu conosciuto anche come indaco bagadeo o baccadeo (di Baghdad), ma rimase per lungo tempo un prodotto molto costoso. Indigofera tinctoria è un arbusto alto fino a due metri appartenente alla famiglia delle Fabacee, possiede foglie composte pennate e fiori di colore rosa carico. La pianta, probabilmente originaria dell’Asia meridionale, forse dell’ India, fu largamente coltivata a scopo di esportazione nel Bengala sotto il dominio inglese, tanto da suscitare intorno al 1830 la cosiddetta “rivolta dell’indaco”, causata dall’abbandono delle colture tradizionali. Nel corso del XVII secolo l’indaco fu introdotto anche in America settentrionale, in Florida e nella Carolina del sud, dove venne estesamente coltivato per l’esportazione in speciali fattorie, note come indigotiere. In Italia ed in Abruzzo ne fu tentata la coltivazione come specie annuale, tuttavia quando vennero portati avanti questi tentativi ormai andavano diffondendosi i pigmenti artificiali anilinici, che finirono per sostituire completamente l’indaco nella tintura delle stoffe. L’indaco contiene il pigmento indigotina come il guado, ma in quantità nettamente superiore, consente quindi di ottenere tinture di maggior pregio, più marcate ed uniformi Al genere Indigofera appartengono altre specie dotate di proprietà tintorie, come Indigofera suffruticosa, detta anche Indigofera anil, originaria dell’America tropicale e dei Caraibi, il cui nome specifico, anil, deriva dal sanscrito anīl, che significa blu – scuro, indaco. Dai prodotti di decomposizione dell’indaco estratto da questa specie nel 1826 Otto Unverdorben isolò l’anilina, ammina aromatica utilizzata, a partire dal 1858, per produrre moltissime molecole coloranti che hanno soppiantato quasi completamente i pigmenti naturali. Un’ulteriore specie vegetale utilizzata per produrre un pigmento blu è stata il poligono tintorio o indaco cinese (Persicaria tinctoria (Aiton) H.Gross), appartenente alla famiglia delle Poligonacee. Questa pianta, diffusa dall’Europa orientale fino all’Asia orientale, fu sporadicamente coltivata anche in Europa ed in Italia, ma fornisce un colorante peggiore rispetto al vero indaco. Se per il colore azzurro-blu le piante spontanee disponibili sul nostro territorio erano pochissime, nel caso della colorazione rossa la situazione non era migliore, infatti l’unica specie vegetale in grado di fornire questa tinta era la robbia (Rubia tinctorum L.), peraltro non autoctona in Abruzzo. La robbia, detta anche garanza (dalle voci latine medioevali varantia, warentia, derivati da verantia), è una pianta erbacea perenne originaria dell’Asia occidentale e centrale, che trovò utilizzo fin dall’epoca protostorica per la tintura di stoffe e pellami grazie ad un pigmento rossastro contenuto nei suoi rizomi. A seguito dell’abbandono della coltivazione questa pianta è attualmente quasi scomparsa dal territorio abruzzese, anche se alcuni individui sporadici vengono ancora segnalati nei pressi di pochi centri urbani pedemontani, laddove in passato ne era più diffusa la coltura. Rubia tinctorum appartiene alla famiglia delle Rubiacee, raggiunge l’altezza di un metro e presenta fusti erbacei a sezione quadrangolare, coricati o rampicanti, scabri per la presenza di corti aculei, curvi e resistenti. Le foglie sono riunite lungo i fusti in tipici verticilli costituiti da sei elementi di forma lanceolata. Sono lunghe fino a 5 cm, piuttosto coriacee e caduche durante la stagione fredda, quando la parte aerea della pianta tende a disseccarsi. I fiori, che compaiono nella tarda primavera, sono disposti in pannocchie al termine dei fusti ed all’ascella dei verticilli di foglie. Le corolle sono biancastre o giallastre, larghe intorno ai 5 mm. I frutti sono bacche sferiche, nere. La pianta sopravvive durante la stagione invernale grazie ai rizomi sotterranei di colore rossastro che contengono il pigmento alizarina ed altri composti polifenolici come la purpurina, la pseudopurpurine e la rubiadina. Il nome rubia, già presente in Plinio il Vecchio, deriva dal latino ruber ‘rosso’ ed indica che la pianta era ben conosciuta nel modo romano, in Grecia era invece nota con il nome di erythrodanon. In Abruzzo ed in buona parte delle regioni italiane si può rinvenire allo stato selvatico una specie strettamente imparentata, la robbia selvatica (Rubia peregrina L.) (foto n.12), abbastanza simile, ma dotata di fusti lunghi fino a 2,5 m e foglie sempreverdi di colore più scuro. La robbia selvatica vegeta nelle boscaglie, nelle macchie e nelle siepi, in zone calde ed asciutte, soprattutto nelle aree mediterranee. In Abruzzo si può osservare soprattutto nelle zone costiere, dove è comune, ma anche in molte aree dell’interno. I rizomi ed i fusti sotterranei di Rubia peregrina contengono un pigmento rosso di qualità inferiore rispetto a Rubia tinctorum, molto più ricco di pseudopurpurina, ma ugualmente utilizzato fino all’ottocento per la tintura in ambito domestico, soprattutto nelle zone interne della regione per le stoffe destinate agli abiti tradizionali. In Europa la robbia dei tintori era coltivata soprattutto nelle regioni mediterranee, come la Provenza, l’Italia e la Grecia, inoltre una porzione consistente delle esigenze del mercato era soddisfatta dalle importazioni di radici provenienti dalla Siria e dall’Asia minore. In Italia ed in Abruzzo la coltura di Rubia tinctorum continuò ad essere praticata fino all’ottocento, per declinare successivamente dopo che nel 1868 i chimici tedeschi Karl Graebe e Karl Liebermann riuscirono a sintetizzare artificialmente l’alizarina, principale sostanza colorante contenuta nei rizomi della robbia. Tale risultato rappresentò il primo successo nella sintesi artificiale di coloranti naturali. L’alizarina era stata isolata nel 1826 dal glicoside acido ruberitrico, presente nei rizomi e nelle radici di Rubia, da parte dei francesi Pierre Jean Robiquet e Jean Jacques Colin, che le diedero questo nome poiché con il termine alizari (dall’arabo al-‛aòārah) si indicavano i rizomi della robbia provenienti dalla Turchia. L’estrazione del colore dalla robbia viene effettuata pestando i rizomi ancora freschi e ponendoli poi a macerare in acqua per circa 10 ore. Al termine si filtra e si lascia decantare per circa due ore. Il pigmento ottenuto si può applicare in bagno di tintura al tessuto precedentemente mordenzato con allume, ottenendo tinte rosse abbastanza chiare, tendenti all’arancione, dette in passato rosso turco. La robbia selvatica fornisce un pigmento di colore rosso che tende maggiormente all’arancione. La tintura può essere effettuata anche direttamente con i rizomi di robbia polverizzati, che vengono aggiunti all’acqua nella quale viene immersa la lana, portandola alla temperatura di 85 °C per un’ora e mescolando ripetutamente per favorire la distribuzione uniforme della tintura. Se per l’ottenimento dei colori azzurro e rosse le possibilità di scelta nell’ambito della flora spontanea risultavano molto limitate, la gamma delle specie disponibili nei nostri ambienti per ottenere il giallo aumentava notevolmente. Senza ricorrere al costoso zafferano per le diverse colorazioni gialle ci si poteva affidare a varie piante, tra le quali la camomilla dei tintori (Cota tinctoria), la reseda biondella (Reseda luteola) e la ginestra dei tintori (Genista tinctoria). La camomilla dei tintori, detta anche occhio di bue, buftalmo (occhio di bue in greco) o occhio di Sole, Cota tinctoria (L.) (foto n.13) è una pianta erbacea perenne o biennale, appartenente alla vasta famiglia delle Asteracee, molto comune nel teramano, dove si può osservare soprattutto nelle zone collinari. Vegeta in genere nelle zone asciutte, sui pendii soleggiati, lungo i sentieri, negli incolti, presso i margini stradali, per cui è facile osservarla in fioritura, nella tarda primavera ed all’inizio dell’estate, grazie ai tipici capolini che hanno l’aspetto di bottoni giallo dorati. La pianta è alta tra i 30 ed i 40 cm e si distingue anche per le foglie di colore verde cenerino, finemente pennate, che non si spingono lungo la parte superiore degli steli, dove si aprono le infiorescenze. I capolini, che arrivano al diametro di 2,5 cm, sono costituiti da un disco giallo, che tende con il tempo a divenire convesso, costituito dai minuscoli fiori tubulosi del disco e dai fiori ligulati del raggio, simili a corti petali, di colore giallo vivo. In Italia la camomilla dei tintori è comune soprattutto nelle regioni centrali e tende a rarefarsi se ci si sposta verso le regioni settentrionali e le aree poste a sud della Campania. Nella penisola la pianta è presente con due sottospecie, Cota tinctoria subsp. australis, diffusa nelle regioni centrali e meridionali e Cota tinctoria subsp. tinctoria, presente nelle regioni settentrionali, che si distingue per i fiori del raggio più lunghi. I capolini della pianta contengono i pigmenti luteina, che è un carotenoide, ed apigenina, che è un flavone, caratterizzati da una colorazione gialla piuttosto intensa. La camomilla dei tintori fu largamente impiegata come specie tintoria nell’antichità, da Egizi, Greci e Romani. In seguito il suo uso in Italia si ridusse per la concorrenza di altre piante che forniscono gradazioni di giallo più apprezzate. Al contrario la specie è stata molto utilizzata nel Regno Unito, negli Stati Uniti d’America, dove fu introdotta, in Turchia ed in India. L’estrazione del pigmento si effettua sottoponendo i capolini a macerazione per mezza giornata e successivamente portando ad ebollizione per un’ora. In seguito il liquido ottenuto si sottopone a filtrazione. Per colorare si porta ed ebollizione per circa 1 ora in bagno di tintura la lana premordenzata. La reseda biondella (Reseda luteola L.) (foto n.14), detta anche erba guada o guaderella, è una pianta erbacea a ciclo solitamente biennale, ma talora perenne, appartenente alla famiglia delle Resedacee. Il nome di erba guada sembra avere la stessa etimologia del termine guado, in inglese la pianta è detta weld, in francese gaude ed in spagnolo gualda, in quest’ultima lingua l’aggettivo gualdo ha il significato di giallo. Reseda luteola è diffusa in tutto il territorio italiano, ma non è molto frequente. La si può osservare sui greti fluviali, nelle zone pietrose, lungo le massicciate ferroviarie, sui vecchi muri, sui terreni di riporto e nelle aree disturbate, generalmente su substrati calcarei. La pianta può raggiungere un’ altezza di poco superiore al metro, presenta fusti dritti, muniti di foglie semierette di forma lineare, prive di picciolo, lunghe fino a circa 10 cm. I fiori, disposti in uno stretto racemo, sono poco appariscenti, di colore bianco – giallastro, muniti di quattro petali lunghi circa 4 mm, profondamente incisi. Compaiono nella stagione estiva e sono seguiti dai frutti che sono caratteristiche capsule globose, lunghe 4-5 mm, suddivise in tre lobi, all’interno delle quali sono contenuti i semi. La reseda biondella è stata apprezzata come pianta tintoria fin dall’epoca romana in virtù del suo colore giallo, brillante e molto solido, che trovò impiego non solamente nella tintura dei tessuti, ma anche per la realizzazione di miniature. Il pigmento, contenuto nel fusto, nelle foglie e soprattutto nei fiori durante il periodo della fioritura, è costituito da luteolina e dal flavone apigenina, presenti allo stato di glicosidi. L’ impiego di Reseda luteola è stato particolarmente ampio in Europa e nel Vicino Oriente fino al XVIII secolo, grazie all’elevata qualità del colore giallo da essa fornito. La pianta per questo motivo è stata oggetto di coltivazione soprattutto in alcune aree dell’Europa centrale, grazie alla sua resistenza alle basse temperature. In queste zone ha rivestito anche il ruolo di importante pianta mellifera. L’abbandono della coltura è stato causato dalla progressiva diffusione dei coloranti sintetici di più agevole produzione, tuttavia questi ultimi con notevole difficolta sono riusciti a sostituire il pregiato giallo fornito dalla reseda biondella. Questo pigmento si otteneva con l’infusione in acqua calda delle foglie essiccate all’aria. Per la tintura della lana si usava come mordente l’allume. Sovrapponendo il colore giallo fornito dalla reseda biondella al blu dell’indaco è possibile ottenere un verde brillante. Un’altra specie vegetale dei nostri ambienti in grado di fornire un pigmento giallo è la ginestra minore (Genista tinctoria L.) (foto n.15), detta anche ginestrella o ginestra dei tintori, pianta arbustiva appartenente alla famiglia delle Fabacee abbastanza diffusa nel nostro territorio, soprattutto dove il suolo sia leggermente acido. Genista tinctoria si distingue dalle altre specie di ginestra per le dimensioni piuttosto ridotte, raggiunge infatti solitamente appena i 30 – 40 cm di altezza, pur potendo talora arrivare anche ad 80 cm. Possiede un fusto lignificato solo alla base, con rami verdi di aspetto erbaceo, muniti di foglie caduche, ellittico-lanceolate di colore verde scuro. I fiori papilionacei sono di colore giallo e si dispongono alla sommità dei rami, in corrispondenza dell’ ascella delle foglie. Il loro aspetto è abbastanza peculiare perché presentano una marcata divaricazione tra la parte superiore, il vessillo, e quelle inferiori, cioè carena ed ali. La fioritura ha luogo tra maggio e luglio a seconda dell’altitudine, dal momento che la pianta può spingersi oltre i 1500 m di quota. Il frutto è un legume lungo circa 2,5 cm che può contenere fino a 10 semi. La ginestra minore è abbastanza comune nei prati asciutti non eccessivamente disturbati e presso i margini luminosi delle boscaglie nell’area delle colline teramane e sui Monti della Laga, tende invece a rarefarsi dove prevalgono i substrati calcarei, come accade sul Gran Sasso. La pianta ha trovato utilizzo per le sue proprietà tintorie fin dall’epoca romana, dal momento che contiene, soprattutto nei petali, l’isoflavone genisteina che conferisce una colorazione gialla ai tessuti. Tale pigmento presenta una certa deperibilità, per cui nel Medioevo spesso ne era sconsigliato l’uso dagli statuti dei tintori. L’uso della ginestrella si è conservato invece nella tintura domestica tradizionale delle lane. Inoltre la pianta è stata coltivata perchè mescolando il pigmento giallo da essa prodotto con l’azzurro proveniente dal guado è possibile ottenere delle colorazioni verdi molto stabili, come il verde Kendal impiegato per i tessuti di lana. In Abruzzo la tinta verde tradizionalmente si otteneva anche utilizzando la corteccia e le foglie dell’orniello (Fraxinus ornus L.), un albero appartenente alla famiglia delle Oleacee molto diffuso nei boschi collinari e submontani della regione. L’orniello fornisce per macerazione ed ebollizione un pigmento giallo-verdastro con il quale si tingevano stoffe premordenzate, prodotte con lana già colorata in azzurro con il guado. La sovrapposizione dei due pigmenti forniva un tinta verde anche in questo caso molto resistente. La tintura artigianale e domestica della lana praticata nelle nostre aree montane conosceva un ulteriore tipo di colore giallo piuttosto scuro, tendente al color ocra, fornito dalle foglie dell’edera (Hedera helix), pianta rampicante molto frequente nei nostri boschi appartenente alla famiglia delle Araliacee. Il pigmento proveniva dalle foglie e dai ramoscelli che venivano posti a bollire con la lana mordenzata. Il decotto di foglie della pianta era utilizzato anche per ripristinare la colorazione di tessuti neri. In alcuni luoghi si sfruttavano anche le bacche dell’edera per ricavarne un pigmento rossastro dopo ebollizione con l’allume. Un colore più scuro come il marrone era ottenuto dal mallo di noce, cioè dall’epicarpo verde che ricopre il frutto del noce (Juglans regia L.), che viene raccolto in settembre quando i frutti sono maturi. Il mallo è ridotto in piccoli pezzi e posto a macerare in acqua per quattro giorni. Successivamente il liquido ottenuto viene fatto bollire per un’ora e sottoposto a filtrazione. In tale liquido viene immersa la lana precedentemente mordenzata con solfato di ferro e cremore di tartaro, ottenendo una colorazione marrone scura. Se si utilizza con la stessa procedura il mallo delle noci non mature si ottiene invece una colorazione dalle tonalità verdastre. La colorazione è dovuta allo juglone, composto organico aromatico presente nelle radici, nella corteccia e nelle foglie degli alberi alla famiglia delle Juglandacee. In natura lo juglone si comporta da sostanza tossica allelopatica, impedendo lo sviluppo di altre specie vegetali concorrenti al di sotto della chioma dei noci. Una tinta più scura si ottiene utilizzando con la stessa procedura il mallo del noce nero (Juglans nigra L.), che è una specie americana introdotta in Italia per la produzione di legno (noce canaletto). Alcune specie vegetali possono fornire pigmenti diversi provenienti da differenti parti della pianta. Una di queste specie è il comune prugnolo (Prunus spinosa L.) (foto n.16), un arbusto dai molteplici usi appartenente alla famiglia delle Rosacee ed ampiamente diffuso nel nostro territorio. La scorza dei rami del prugnolo, ricca di tannino, contiene un pigmento bruno-rossastro utilizzato per la tintura della lana, se tale corteccia viene bollita con allume produce invece un colorante giallo-arancione, ugualmente usato per tingere la lana. Dai fiori di Prunus spinosa, utilizzando l’allume come mordente, si può ottenere invece un pigmento di colore verde-oliva. Anche le foglie della pianta possono fornire un colorante verde, mentre dai frutti, che sono drupe di colore nero-bluastro, si ricava una tinta grigio-scura. Un altro arbusto dal quale è possibile estrarre tinte differenti è il sambuco (Sambucus nigra L.), altra presenza comune dei nostri ambienti. In questo caso la corteccia produce un colore marrone-scuro se trattata con mordente a base di ferro, le foglie danno una tinta verde con un mordente a base di allume, mentre le bacche forniscono una colorazione viola in presenza di allume, tinta che vira verso il lilla se all’allume si aggiunge sale da cucina. Quest’ultimo è solo un ulteriore esempio della quanto mai varia tavolozza di colori che il mondo vegetale era in grado di fornire a quanti a livello familiare o artigianale si industriavano a dare colore alla lana che veniva impiegata per realizzare i tessuti della tradizione. Con risultati veramente notevoli se si tiene conto della vivace policromia dei diversi costumi tradizionali in uso nei vari settori del nostro territorio. Biodiversità anche questa, tramontata irrimediabilmente nonostante l’avvento dei moderni coloranti anilinici che hanno fatto dimenticare un patrimonio di conoscenze ed abilità millenarie che sarebbe opportuno non perdere definitivamente.

                                                                                                                                                                          Nicola Olivieri

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