Romolo e la cardatura, gli anni del tramonto di un antico mestiere

Romolo Intini, nato ad Intermesoli ed attualmente residente a Pietracamela, iniziò a cardare la lana  nel 1942, appena quattordicenne,  e  svolse questo mestiere  per  sette anni, fino al 1948. Appartiene quindi all’ultima generazione dei cardalana, prima che la loro attività manuale venisse sostituita per sempre dal lavoro automatico delle macchine tessili.

In realtà nel nostro comprensorio la lavorazione della lana e le attività dei cardatori avevano subito già una fortissima flessione negli anni trenta, quando si intensificarono i grandi lavori sia per la costruzione delle centrali idroelettriche situate lungo il corso del fiume Vomano (nell’ordine Provvidenza, San Giacomo e Montorio), sia per la costruzione  del lago artificiale di Campotosto, che doveva alimentare le suddette centrali. Erano costruzioni imponenti e a quell’epoca richiedevano tantissima manodopera, che venne fornita in massima parte dalle popolazioni locali.

I tanti cardatori, che erano costretti  a girovagare per diversi mesi (in genere quelli invernali) di paese in paese e qui di casa in casa, trasportandosi in spalla il pesante fardello dell’attrezzatura necessaria e solo per guadagnarsi, a conti fatti, il minimo indispensabile per vivere, videro in quei numerosi cantieri l’opportunità di un istantaneo ed inaspettato cambio di vita. Oltretutto lo sviluppo industriale aveva già  reso residuale la quantità di lana disponibile alla lavorazione tradizionale, in genere rimasta confinata solo alle zone rurali, e quindi i guadagni di tale attività si erano ormai, anche e soprattutto per questo, ridimensionati.

I nuovi cantieri rappresentavano la possibilità reale, mai avuta prima, di lavorare vicino casa con una buona e sicura retribuzione. Senza contare che la durata di tali lavori si preannunciava pari a circa un decennio e anche più, tale cioè da offrire una considerevole garanzia di stabilità. Gli attrezzi per cardare la lana finirono così  abbandonati nelle soffitte o nei pagliai.

Pur essendo in quel periodo ancora un bambino, Romolo ricorda perfettamente che quasi tutta la forza lavoro dei nostri paesi (Pietracamela, Cerqueto, Poggio Umbricchio, Intermesoli, Fano Adriano, Nerito, Cusciano ecc.) era occupata nei lavori di costruzione di gallerie, opere di presa, canalizzazioni, dighe. Insieme ai locali c’erano anche molte persone, sia tecnici che operai, provenienti da quasi tutte le regioni italiane  e alcuni di loro si stabilìrono poi  a vita nel nostro territorio.

Qualche anno più tardi, però, l’entrata in guerra dell’Italia provocò l’interruzione dei  lavori e tutti i cantieri vennero chiusi. Molti operai vennero richiamati alle armi ed arruolati, gli altri che per età non partirono per il fronte, rimasti senza stipendio, sfamarono le proprie famiglie continuando a coltivare i poco produttivi campi delle nostre zone.

La guerra determinò anche la graduale cessazione di produzione da parte delle fabbriche non direttamente collegate con l’industria bellica o che si trovavano in zone non più fornite dall’energia elettrica. Tra queste vi erano anche molte fabbriche tessili. La povertà si diffuse in tutto il territorio nazionale ed il bisogno di autoproduzione dei beni ritornò indispensabile.

Questa era la situazione nei nostri paesi in quel particolare momento storico, almeno così come me l’ha descritta Romolo mentre lo accompagnavo con la macchina, zeppa dei suoi attrezzi, da Montorio a Piano Roseto. Qui,  con molta disponibilità, ha acconsentito, come lo scorso anno e nonostante una recente operazione chirurgica, a presentare ed illustrare ai visitatori della Fiera della Pastorizia  l’arte della cardatura, nei suoi momenti salienti.

Così ha continuato il suo racconto: «la ripresa del mestiere del cardare la lana ripartì in quegli anni. Un intraprendente cardatore di Pietracamela, soprannominato Scarechettino, sapendo che i vecchi cardi abbandonati erano diventati ormai inutilizzabili, si mise a costruirne di nuovi. Riuscì a procurarsi le cinghie  con i pettini (componente fondamentale dei cardi), comperandole a basso prezzo dalle fabbriche di tessuti, che erano ferme. Un’importante fabbrica si trovava a Teramo. Le cinghie erano larghe sei centimetri, mentre le tavole dei cardi misuravano circa 80 cm di lunghezza e 25 di larghezza, per cui, una volta tagliate le cinghie alla lunghezza giusta, occorrevano 4 pezzi per riempire la tavola. In questo modo riuscì a costruirne diversi e iniziò a venderli a tutti coloro che ripresero l’ attività di cardatore, di nuovo utile e richiesta. Anche io ne comperai uno e ricordo che quello stesso giorno pure due cardatori di Cerqueto salirono a Pietracamela per acquistarli. Quasi tutti i cardi che ancora oggi si trovano in giro sono di quel periodo, perché i vecchi cardi andarono per la maggior parte perduti.

Nel mese di ottobre del 1942, partii insieme a mio cognato per iniziare il mestiere di cardatore.  Poiché non eravamo tanto sicuri di poter trovare lavoro, decidemmo di non allontanarci molto e ci recammo a Penna Sant’Andrea e a Basciano. Qui trovammo comunque da lavorare e lo facemmo fino a Natale, quando tornammo a casa. L’anno successivo, dopo la semina, partii di nuovo con un cugino più grande di me che era tornato dal militare dopo l’armistizio del 1943. Ci recammo prima a Collevecchio, vicino Montorio, dove barattammo il nostro lavoro con olio di oliva, parte del quale ci serviva per cardare la lana. Poi venimmo a sapere da alcuni parenti che nelle province di Rieti e L’Aquila per ogni kg di lana cardata pagavano quasi il doppio rispetto a quanto era possibile ottenere nella provincia di Teramo.

Così, passando dalla strada che dal Passo delle Capannelle conduce a Capitignano, arrivammo in quel paese e cominciammo subito a lavorare. Da lì ci recammo a Montereale, e poi a Busci e Ville di Fano, che sono frazioni di Montereale. Ville di Fano si trova molto più vicino a Borbona (in provincia di Rieti), che al suo capoluogo. Andammo quindi a Borbona e poi a Posta, che è un altro Comune, e a Sigillo, che è una frazione di Posta. Da Sigillo, ripassando per Laculo, risalimmo a Vallemare, nel Comune di Borbona. Da lì, sempre dopo aver terminato il lavoro che ci veniva proposto, camminammo abbastanza fino a superare il monte  che sovrasta Antrodoco, dove c’è ancora  oggi c’e ‘la scritta “DUX” fatta con gli alberi (Monte Giano ndr), per riscendere nella parte opposta, nella vallata del Comune di Cagnano Amiterno. Qui lavorammo a Cabbia di Montereale, a Cagnano Amiterno e nelle sue frazioni Fiugni, Corroccioni e soprattutto Termine di Cagnano. In questi territori  ci tornammo per diversi anni. Ripartivamo per casa in genere dopo la Pasqua e comunque ad aprile inoltrato.

Seppi che a Montereale c’era un lanificio non funzionante. Mi recai lì e, seguendo l’esempio di Scarechettino, chiesi se avevano le cinghie con i pettini, indispensabili per costruirsi manualmente i cardi. Mi risposero affermativamente e a poco prezzo mi offrirono tutto il rullo rimasto. Nella fabbrica vidi che queste cinghie erano utilizzate avvolte su due grossi rulli contrapposti. Il padrone, abbattuto e scoraggiato perché la fabbrica non produceva solo per mancanza di energia elettrica, ma con forti dubbi sul destino di essa, mi spiegò che le cinghie munite di dentini e avvolte sui rulli, cardavano la lana fatta passare in mezzo ai rulli stessi. Riducendo la distanza tra i rulli, il velo delle fibre di lana, che si erano intanto disposte parallelamente grazie alla cardatura, diventava sempre più sottile fino ad essere poi diviso in strisce per andare a generare il nastro cardato. Il procedimento era quindi simile a quello che facevamo noi manualmente, ma naturalmente era molto più veloce e con risultato finale più omogeneo. Comperai al prezzo pattuito le cinghie con i chiodini e le portai con me per tutta la durata della stagione. Tornato a casa, riuscii ad ottenerci sei tavole, quindi tre paia di cardi.

Un lungo periodo di lavoro lo passavamo come detto quasi sempre a Termine di Cagnano, che si trova, se ricordo bene, a circa tre chilometri da Cagnano, ma più in alto, oltre i mille metri di altitudine, mentre Cagnano si trova a circa 850 metri di altitudine. La condizione degli abitanti di Termini era tutto sommato abbastanza buona per quei tempi, perché molti erano contadini e pastori con a disposizione tanta terra da coltivare e tanti pascoli. Appena dopo Termini c’era  infatti una grande piana tutta lavorata, attraversandola e salendo un po’ si apriva improvvisamente un altro altopiano ancora più grande, la piana di Cascina, che era uno spettacolo da vedere perché era piena di coltivazioni, soprattutto di granturco, e pascoli, una distesa enorme in alta montagna.

Ci fermavamo quindi per molto tempo a Termine e qui, nei periodi precedenti il Natale o la Pasqua, gli abitanti, per rinnovare il vestiario, si erano organizzati in modo da non costringerci a spostarci da una casa all’altra: tutti portavano la lana da cardare in un unico casolare di proprietà di una famiglia del posto e noi procedevamo nel lavoro rispettando la lista di arrivo. Ci trattavano molto bene e si creava in quelle settimane  un vero piccolo laboratorio, perché nello stesso locale, oltre a noi che cardavamo la lana, venivano molte ragazze e donne che la filavano e direttamente, lavorando ai ferri, cucivano poi calzini, scialli, maglie. In quel periodo infatti era molto difficile trovare i capi essenziali del vestiario o avere i soldi sufficienti per comperarli. Si mangiava anche tutti insieme, soprattutto polenta visto che avevano molto mais e ognuno portava un po’ di farina da casa propria. In paese conoscevamo quasi tutti e spesso facevamo anche altri lavori: mio cognato, che era un fabbro, una volta aiutò a costruire una teleferica per riportare a valle la legna, forgiando alcuni pezzi in ferro occorrenti e lavorando quasi una settimana per sistemarla.

C’era molto lavoro e spesso dovevamo rinunciare a qualche buona opportunità, perché non riuscivamo  a smaltire tutte le richieste. Posso dire che la mia esperienza da cardatore l’ho compiuta tutta in quelle zone, perché ci sarei tornato ininterrottamente per cinque anni, fino al 1947. Sono zone e paesi che ho ancora nel cuore perché, nonostante  il lavoro e le dure condizioni di vita dei cardatori, quegli anni hanno accompagnato  la mia adolescenza e tutto sommato devo dire che sono stati anni difficili, ma sereni.

Verso la fine degli anni ‘40, dopo la guerra, cominciarono ad aumentare le possibilità di occupazione nelle nostre zone e la lana da cardare manualmente andava rapidamente diminuendo, perché le fabbriche ora funzionavano di nuovo a pieno regime. Nel 1948 non tornammo in quei paesi in quanto avevamo saputo che, diversamente dagli altri anni, ora c’era poco lavoro. Questa variazione fu quasi immediata: le cose per il nostro mestiere cambiarono radicalmente da un anno all’altro.

Il 30 novembre, dopo essere stato alla fiera di Sant’Andrea a Montorio, dove mio padre acquistò un asino, partii insieme ad alcuni compagni di lavoro per trovare lana da cardare, quasi a voler controllare se effettivamente non potevamo fare più affidamento su quell’attività. Non ci volle molto per capire che era proprio così: girovagammo alcune settimana per vari paesi nei pressi di Atri con scarsi risultati e rimanemmo solo qualche giorno in più a Villa Bozza. E quella fu l’ultima volta che cardai la lana per lavoro».

Angelo Mastrodascio

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