Storia della vegetazione e dell’agricoltura sulle nostre montagne

Lo sviluppo e la successiva decadenza dell’agricoltura nelle aree montane appenniniche, verificatisi anche nel territorio di Cerqueto nel corso degli ultimi due secoli, rappresentano solo un capitolo della complessa storia della vegetazione che copre le nostre montagne, sulla quale l’azione antropica si è sovrapposta agli effetti dei cambiamenti climatici.

La copertura vegetale che oggi ammanta i rilievi appenninici con un mosaico di boschi, prati e pascoli, nonostante le apparenze, conserva ben poco della fisionomia originaria, ma rappresenta piuttosto il risultato dell’azione millenaria dell’uomo che nel corso dei secoli ha utilizzato in maniera differente le risorse offerte dagli ambienti montani. In sostanza dal termine dell’ultimo periodo glaciale, che si colloca intorno ai 10.000 anni fa, l’azione antropica ha influenzato in maniera costante fino ai nostri giorni le caratteristiche e l’evoluzione delle biocenosi che si sono succedute sulle nostre montagne. Questa azione sicuramente si è manifestata in maniera più blanda anche prima del termine della glaciazione wurmiana, come testimoniano i reperti rinvenuti nei “Grottoni” di Calascio, sul versante meridionale della catena del Gran Sasso, dove circa 80.000 anni fa, durante la fase anaglaciale del primo ciclo della glaciazione, definito Würm I dal nome di un affluente del Danubio, gruppi di uomini di Neanderthal si accamparono in più occasioni durante i periodi estivi in un riparo posto a 670 m di quota sull’attuale livello del mare, per cacciare camosci (Rupicapra pyrenaica ornata), cervi (Cervus elaphus), caprioli (Capreolus capreolus), marmotte (Marmota marmota), cavalli selvatici (Equus ferus), uri (Bos primigenius) e persino lupi (Canis lupus), iene delle caverne (Crocuta crocuta spelaea) e leopardi (Panthera pardus) nelle aree circostanti. Questa fauna era associata ad un ambiente dominato soprattutto da boschi di conifere e da praterie (foto n.1),  sul quale l’uomo influiva soprattutto tramite il prelievo di animali a scopo venatorio, la raccolta di prodotti di origine vegetale ed eventualmente l’incendio per diradare la vegetazione. Il miglioramento climatico apportato dalla conclusione dell’ultimo periodo glaciale si accompagnò ad una graduale ma imponente modificazione della copertura vegetale. L’incremento delle temperature e delle precipitazioni determinò la scomparsa delle praterie e delle steppe, che furono sostituite ovunque da boschi di latifoglie, boschi misti di latifoglie e conifere (foto n.2) e da arbusteti di altitudine, che si elevarono fino a quote superiori ai 2000 m.

Alberi ed arbusti costituirono una copertura continua che dalle coste marine si spingeva pressoché ininterrotta sino alle quote dell’orizzonte subalpino (1800 – 2300 m), con le boscaglie di pino mugo (Pinus mugo), ginepro nano (Juniperus communis subsp. alpina),  ramno alpino  (Rhamnus alpina),  etc. In particolare l’elevazione delle fasce di vegetazione raggiunse i valori massimi durante il cosiddetto periodo dell’optimum climatico postglaciale, tra 7000 e 4000 anni fa, quando le temperature medie superarono di circa 2-3 °C i livelli attuali  ed i ghiacciai raggiunsero le loro dimensioni minime. In quel periodo scomparvero tutti i ghiacciai appenninici ed anche la conca del Calderone, sul Gran Sasso fu occupata da vegetazione erbacea e vi si sviluppò uno strato di suolo. Le informazioni sulla passata fisionomia della vegetazione sono desunte soprattutto dallo studio dei fossili vegetali, in particolare dai pollini prodotti dalle varie specie di piante. Questi in particolari condizioni, quali sono quelle che si verificano delle torbiere e delle aree acquitrinose, possono conservarsi per tempi lunghissimi negli strati di torba e di suolo.  Le indagini condotte su tali depositi  rendono quindi possibili tanto il riconoscimento delle specie vegetali presenti nei vari periodi, quanto la valutazione della loro frequenza relativa nel tempo. Lo studio dei pollini fossili o paleopalinologia rappresenta pertanto uno strumento fondamentale per la ricostruzione delle condizioni ambientali del passato, in particolare per quanto concerne gli aspetti paleoclimatici e paleoecologici. Per l’area del Gran Sasso – Monti della Laga  il quadro evolutivo delle condizioni climatiche e della copertura vegetale emerge in maniera abbastanza significativa  dalle analisi polliniche effettuate nella torbiera di Campostosto da M. Marchetti nel 1936 e molto più di recente a Piano delle Locce presso Barisciano da P.Torri nel 2010. L’espansione della copertura boschiva nel postglaciale determinò la riduzione dell’habitat di quelle specie animali legate alle steppe ed alle praterie come i cavalli selvatici (Equus ferus) che, a somiglianza delle zebre nelle savane africane, costituivano una fonte alimentare essenziale per i superpredatori come i leopardi (Panthera pardus), i leoni (Panthera leo spelaea) e le iene delle caverne (Crocuta crocuta spelaea). Il finire della glaciazione segna il rapido declino di questi animali che si estinguono completamente come la iena delle caverne o sopravvivono in quelle zone che conservano più a lungo gli ambienti di prateria come la penisola balcanica, l’area caucasica, la penisola anatolica. Altre specie più legate alle zone montane si ritirarono verso quote sempre più elevate come la marmotta (Marmota marmota), il camoscio (Rupicapra pyrenaica ornata) e lo stambecco (Capra ibex), ma qui la loro situazione si fece sempre più critica. La frammentazione degli habitat idonei via via più ristretti a causa dell’avanzata dei boschi  e la pressione della caccia esercitata dalle popolazioni umane con strategie sempre più efficienti anche nelle aree impervie, dopo la perdita della risorsa rappresentata dai grandi branchi di erbivori dai bassopiani erbosi,  causarono in breve la scomparsa delle specie  più lente e guardinghe come la marmotta e lo stambecco, relegando il camoscio, più pavido e veloce, nei settori meno accessibili dei maggiori gruppi montuosi. I diagrammi pollinici del postglaciale ci descrivono uno scenario abbastanza simile per quanto concerne la dinamica del popolamento vegetale.  Si registra, infatti, la riduzione e progressiva scomparsa di entità settentrionali e microterme come il pino silvestre (Pinus sylvestris), l’abete rosso (Picea abies), l’ontano verde (Alnus viridis) e la betulla (Betula pendula), diffusi ora essenzialmente sulla catena alpina e la presenza ancora importante di conifere come il pino mugo (Pinus mugo) ed il pino nero (Pinus nigra), che si comportano da specie pioniere, il primo soprattutto alle alte quote, l’altro sui versanti più acclivi e rocciosi. Dalle loro aree di rifugio, rappresentate dalle zone costiere  più miti, si diffondono sui rilievi varie specie di latifoglie come le  querce, i carpini, i tigli, il frassino (Fraxinus excelsior) e solo successivamente l’abete bianco (Abies alba) e il faggio (Fagus sylvatica), destinato quest’ultimo a divenire la specie dominante nelle zone più fresche ed umide solo in una fase abbastanza tardiva. Le comunità umane insediate in maniera più o meno stabile nelle aree montane e pedemontane non assistono sicuramente in maniera passiva a queste trasformazioni dell’ambiente che le circonda, ma sulla base di un patrimonio culturale consolidato intervengono in vario modo  sui consorzi vegetali nell’intento di adattarle alle loro esigenze, favorendo ove possibile  l’incremento della presenza di quelle piante che possono rappresentare delle risorse alimentari o fornire legname da opera o legna da ardere. Vengono cosi aperte nei boschi ampie radure ove possono svilupparsi specie che forniscono frutti commestibili come il nocciolo (Corylus avellana), particolarmente diffuso nel postglaciale, il corniolo (Cornus mas), il sambuco (Sambucus nigra), il lampone (Rubus idaeus), il melo selvatico (Malus sylvestris), il pero selvatico (Pyrus pyraster), il sorbo domestico (Sorbus domestica). Tra gli alberi vengono favorite quelle specie di querce che, come la roverella (Quercus pubescens), che possono dispensare ghiande commestibili, inoltre il faggio (Fagus sylvatica), il cui frutto, la faggiola, dopo opportuni trattamenti, può essere utilizzato per l’alimentazione umana e può fornire un olio dai diversi impieghi  e naturalmente il castagno (Castanea sativa), che durante le glaciazioni era rimasto accantonato in poche località costiere dal clima temperato. Lo stesso nome del faggio (fagus) sembra rimandare a questo tipo di utilizzo,  deriva, infatti, dalla stessa dalla radice indoeuropea che si ritrova nell’aoristo efagon (ἔφαγον) del verbo greco estio (ἐσθίω), che ha il significato di mangiare, come pure nella parola di origine latina esofago. La grande diffusione conosciuta dal faggio sull’Appennino negli ultimi 4000 anni, realizzatasi a partire dal periodo subatlantico, successivo all’optimum climatico postglaciale, sicuramente ha trovato nell’uomo un importante alleato. Le superfici prive di copertura arborea create deliberatamente dalle popolazioni umane mediante l’incendio ed il taglio svolgevano il ruolo di zone di pascolo per ungulati come cervo e capriolo, specie che insieme al cinghiale (Sus scrofa),  rappresentavano in questo periodo le principali prede per le  comunità di cacciatori-raccoglitori. In queste aree più luminose era inoltre più facile rinvenire molte specie vegetali erbacee commestibili, dotate di foglie, fiori, germogli, semi, radici e tuberi che potevano rappresentare una componente di rilievo della dieta umana in alcuni periodi. Il termine della glaciazione wurmiana fu foriero di notevoli difficoltà per le comunità di cacciatori-raccoglitori  del Vicino e del Medio Oriente, dove subentrarono condizioni climatiche  piuttosto aride che comportarono una drastica riduzione della disponibilità di  prede cacciabili. Per questi gruppi divenne, infatti, necessario imparare ad ottimizzare lo sfruttamento delle specie vegetali commestibili presenti nelle flore locali attraverso pratiche empiriche di semina e di preparazione del terreno.  Queste esperienze condussero allo sviluppo di  una vera e propria agricoltura.  Molte delle specie vegetali utilizzate ai primordi di questo processo di domesticazione dei vegetali erano dotate di semi commestibili piuttosto grandi e facilmente conservabili ed apparteneva alle famiglie delle Poacee  e delle Fabacee, vale a dire delle Graminacee e delle Leguminose (foto n.3). L’ambiente di origine di queste specie erano praterie piuttosto aride, soprattutto durante la stagione calda, per questo l’agricoltura sviluppatasi nell’area del Vicino Oriente alla fine del Mesolitico fu inizialmente una forma di aridocoltura. Essa sfruttava gli apporti idrici forniti dalle precipitazioni invernali e primaverili che erano perfettamente bastevoli allo sviluppo di piante annuali a ciclo autunnale-primaverile come sono molti cereali e molti legumi. Tra queste piante selezionate sugli aridi altipiani dell’Asia Occidentale vi erano alcune specie appartenenti al genere Triticum, che daranno origine tramite una lunga opera di selezione ed ibridazione ai frumenti, al farro e alla spelta, specie appartenenti al genere Hordeum, dalle quali deriva l’orzo, specie appartenenti al genere Secale progenitrici della segale. In origine queste piante spesso possedevano spighe dotate di rachide fragile, che si disarticolavano al momento della maturazione per favorire la dispersione dei semi, che spesso erano sormontati da lunghe reste pungenti per difendersi dai mammiferi erbivori e dagli uccelli granivori e farsi trasportare passivamente dagli animali dotati di pelo. La selezione portata avanti dell’uomo intervenne presto su queste caratteristiche, portando allo sviluppo di varietà nelle quali  il rachide della spiga  diviene più resistente in modo da consentire con maggiore facilità la raccolta delle cariossidi, cioè dei tipici frutti secchi delle Poacee, dopo la completa  maturazione. Successivamente  vennero selezionate delle forme mutiche, nelle quali le spighe sono pressoché prive di reste. Sugli stessi altopiani aridi del Vicino Oriente  ove prese il via questo processo di coltivazione e di selezione, le praterie ospitavano molte altre specie vegetali a ciclo di vita annuale, spesso dotate di vistosa fioritura per attrarre durante la stagione primaverile i non numerosi insetti impollinatori presenti. Alcune di queste piante si adattarono a vegetare anche nelle coltivazioni di cereali che, in certo senso, riproducevano l’ambiente delle steppe d’origine. Da allora, per millenni, alcune di queste specie divennero ospiti fisse delle coltivazioni di cereali autunno-vernini, caratterizzandole fortemente con le vivaci colorazioni delle loro fioriture. Questo contingente di piante originarie delle praterie asiatiche che hanno seguito in tutto il mondo le coltivazioni di cereali comprende, ad esempio, i papaveri (Papaver spp.), il fiordaliso (Cyanus segetum) ed il gittaione (Agrostemma githago).  L’affermazione dell’agricoltura in Asia occidentale a partire dall’VIII millennio a. C. segna in quel contesto l’inizio del periodo archeologico  noto come Neolitico preceramico A, durante il quale per quelle popolazioni ebbe termine il nomadismo che in parte aveva caratterizzato l’esistenza delle comunità di cacciatori-raccoglitori della precedente fase, definita Natufiana, corrispondente alla fine dell’era glaciale wurmiana. Nacquero i primi insediamenti urbani stabili ed il surplus di risorse alimentari prodotte dall’agricoltura e dall’allevamento favori l’incremento numerico delle popolazioni umane. Questo incremento condusse presto però ad uno sfruttamento eccessivo dei territori che costrinse gruppi di agricoltori a ricercare nuove aree da coltivare. In questo modo l’agricoltura si diffuse rapidamente  verso i Balcani e l’Europa mediterranea a partire dalla penisola anatolica. L’introduzione della coltivazione e dell’allevamento  determinò anche in Europa l’avvio della neolitizzazione, con la conclusione del Mesolitico, qui iniziato intorno ad 11.000 anni fa. Con il Neolitico l’uomo diviene produttore delle proprie risorse ed esplica questa nuova capacità modificando profondamente l’ambiente naturale  che lo circonda. Sono proprio le tracce di queste grandi alterazioni insieme alla comparsa di nuove specie vegetali ed animali i segnali del verificarsi di questa fondamentale transizione culturale. L’agricoltura raggiunge gran parte del continente europeo sia grazie agli spostamenti verso ovest e verso nord di gruppi di coltivatori, sia tramite scambi culturali e fenomeni di acculturazione che coinvolgono le comunità di cacciatori-raccolitori. Tra i 9.000 e gli 8.000 anni fa le innovazioni collegate alla cultura neolitica (agricoltura, allevamento, ceramica) iniziano a manifestarsi nell’area balcanica orientale, per raggiungere la Finlandia, nell’estremo nord del continente, solo nel 1200 a.C. Per quanto concerne l’Italia in Sicilia, nel trapanese, la transizione verso l’economia agricola si registra già intorno a 7.900 anni fa, con la comparsa di orzo (Hordeum distichum), farro piccolo (Triticum monococcum), lenticchie (Lens culinaris) e Lathyrus sp. Dopo poco più di un millennio, prima di 6.500 anni fa, nelle regioni centromeridionali italiane l’agricoltura raggiunge già un significativo grado di evoluzione e tra le varie specie oggetto di coltura si registra la presenza anche del grano tenero (Triticum aestivum) e del grano duro (Triticum durum).  In Abruzzo, nell’insediamento neolitico di Catignano (PE) 6000 anni fa si coltivavano il farro piccolo (Triticum monococcum), il farro (Triticum turgidum subsp. dicoccum), il grano tenero (Triticum compactum) l’orzo (Hordeum vulgare, Hordeum distichum) l’avena (Avena sativa), le lenticchie (Lens culinaris), le fave (Vicia faba) e si praticava l’allevamento di ovini, caprini, bovini e suini. Nelle regioni settentrionali italiane i primi indizi certi di occupazione agricola del territorio risalgono a circa  5400 anni fa, con la comparsa di pollini appartenenti a specie vegetali coltivate presso villaggi ubicati accanto ad aree lacustri. Nel Neolitico l’espansione agricola interessa soprattutto zone pianeggianti  come il Tavoliere delle Puglie, che ospita centinaia di insediamenti, valli fluviali e zone  collinari. Le aree montane vengono interessate in maniera marginale dalla rivoluzione agricola e rimangono sede di attività di caccia e di raccolta. Tuttavia le zone poste a quote più elevate possono offrire pascoli freschi al bestiame allevato anche durante la stagione secca, per questo motivo presto prende avvio la monticazione e greggi ed armenti iniziano ad essere condotti sulle montagne nella bella stagione, lasciando i terreni vallivi più ubertosi alle coltivazioni. In questo modo anche le zone montuose entrano gradualmente a far parte dei circuiti produttivi dell’età neolitica, ma non senza subire modificazioni ambientali di origine antropica,  che per la prima volta assumono una certa rilevanza.

Tra i problemi che i  primi allevatori transumanti furono costretti ad affrontare in quel periodo vi era la scarsa estensione dei prati naturali nelle aree d’alta quota appenniniche, dove, al di sopra della copertura boschiva vera e propria, la fascia degli arbusteti in quel periodo climatico superava largamente i  2000 m di altitudine. Per ampliare le aree di pascolo estivo i pastori neolitici diedero l’avvio alla distruzione della copertura boschiva montana e soprattutto degli arbusteti di altitudine. Per fare questo utilizzavano  soprattutto gli incendi che aprivano grandi spazi nelle faggete, nelle abetine e nelle fitte boscaglie di pino mugo (Pinus mugo) (foto n.4) ed altri arbusti che si estendevano oltre la fascia forestale. Le ampie ed impenetrabili mughete, presenti in quel periodo su tutti i gruppi montuosi dell’Appennino centrale fino a quote piuttosto elevate,  rappresentavano, in particolare, un pesante ostacolo allo sfruttamento degli ambienti montani d’alta quota e la loro distruzione tramite il fuoco iniziò ad essere perseguita in maniera programmata e capillare. Questa  azione, protrattasi poi per millenni ha portato alla completa eliminazione della mugheta e del pino mugo stesso sul Gran Sasso e su vari altri rilievi, cosa che invece non si è verificata sulla Maiella dove l’asprezza della morfologia ha impedito la completa distruzione delle mughete anche nei periodi di maggiore pressione del pascolo ovino. In epoca italica e romana la fascia d’alta quota appenninica rimase sempre poco popolata, una sorta di subecumene remota, che periodicamente  fu soggetta comunque ad uno sfruttamento molto pesante, tanto da far affermare a Sidonio Apollinare (430 – 479 d.C), ormai sulla soglia  del Medioevo, che ogni selva dell’Appennino finiva in mare per la costruzione delle navi, tanto che dai versanti appenninici arrivavano al mare non meno tronchi d’albero che gocce d’acqua. Questa colossale distruzione riguardò soprattutto i boschi di abete bianco (Abies alba) che nel tardo postglaciale si era diffuso ampiamente sui rilievi abruzzesi fino a quote relativamente basse, ma anche i residui nuclei di abete rosso (Picea excelsa), sicuramente ancora presente in Abruzzo fino all’epoca romana, nonché le pinete di pino nero (Pinus nigra) e gli eventuali resti di Pino silvestre (Pinus sylvestris), che in Spagna si spinge ancora fino all’Andalusia. L’alto Medioevo, con le conseguenze delle invasioni barbariche causò una notevole diminuzione della pressione antropica sugli ecosistemi appenninici, ma le specie vegetali che in precedenza si erano estinte in alcuni settori della catena furono comunque impossibilitate a tornarvi, sia per la lentezza delle migrazioni dei vegetali, sia per l’affermarsi di  un periodo climatico caratterizzato da temperature superiori alle medie attuali, il cosiddetto optimum climatico medioevale. Selve e boscaglie tornarono comunque ad espandersi largamente sulle pendici appenniniche, soprattutto laddove l’insicurezza dei tempi aveva causato il declino della pastorizia transumante e l’abbandono dei pascoli. La stessa incertezza del periodo spingeva comunque gruppi di persone ad abbandonare le zone costiere e pedemontane, sedi degli antichi insediamenti umani,  ormai soggette a ricorrenti scorrerie, per cercare rifugio nelle valli appartate tra i rilievi appenninici. Nacquero cosi numerosi piccoli insediamenti montani, spesso posti a quote piuttosto elevate, nei quali si portava avanti un’economia di sussistenza, secondo l’ottica dell’autoconsumo. Questa situazione condusse gradualmente ad una ripresa dello sfruttamento dei boschi, allo sviluppo dell’agricoltura nelle zone montane e ad un incremento dell’allevamento, soprattutto suino e bovino, che si adattava meglio alle zone boschive.

Solo in epoca normanna, dopo il 1100,  l’unificazione politica del territorio abruzzese nell’ambito di un regno che abbracciava anche al Puglia e le regioni meridionali italiane pose le premesse per una ripresa considerevole della pastorizia transumante. Questo rinnovato sviluppo si tradusse nell’esigenza di aprire nuovi pascoli con il progressivo esbosco di molte delle aree che erano state riconquistate dalla vegetazione arborea ed arbustiva nel corso dell’alto Medioevo. La crescita della pastorizia transumante, se pure attraverso fasi alterne, andrà avanti per secoli, incoraggiata e regolata a più riprese dagli stessi sovrani  e viceré del Regno di Sicilia citeriore. Nel corso del XVI secolo, in corrispondenza della crisi economica che seguì la scoperta dell’America, il numero di ovini presenti nei pascoli abruzzesi raggiunse il proprio acme, con una consistenza stimata ad oltre cinque milioni di capi. L’impatto di questo enorme carico di bestiame pascolante sull’ambiente delle montagne fu enorme, con la completa distruzione della copertura boschiva in molte zone, soprattutto nella provincia dell’Aquila, ed il consistente abbassamento artificiale del limite superiore del bosco altrove, con la completa distruzione della fascia di arbusti d’alta quota che s’interponeva tra il bosco ed i prati e la  conseguente scomparsa di alcune specie vegetali ed animali legate a tale ambiente. Il peggioramento climatico dovuto alla cosiddetta “piccola era glaciale” che si protrasse tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XIX secolo e le modifiche del quadro economico determinarono nei secoli successivi una progressiva riduzione del numero di ovini stazionanti sui rilievi appenninici, ma anche notevoli difficoltà all’agricoltura nelle zone montane, dove fu sensibile l’incidenza di periodiche carestie causate dall’inclemenza del clima. Solo durante la prima metà dell’ottocento, dopo la grande carestia del 1816-17, provocata dall’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia,  le condizioni climatiche iniziarono a migliorare e l’aumento della temperatura media facilitò una progressiva ed inusitata espansione dell’agricoltura verso fasce altitudinali sempre più elevate, in zone che per  secoli che erano state dominio incontrastato dei pascoli e della pastorizia(foto n.5). In molte aree abruzzesi furono posti a coltura territori situati ad oltre 1000 metri di quota e spesso i coltivi salirono fino 1200-1300 m ed anche oltre. Così i prati montani si vestirono di messi ed accanto alle patate furono coltivati cereali e legumi. Nelle zone più fertili ed umide,  spesso situate vicino ai ruscelli e denominate “cannavine” o canapine, perché idonee anche alla coltivazione della canapa, si praticava invece l’orticoltura. Oggi il toponimo “cannavine” si ritrova in molte zone montane abruzzesi e testimonia la passata diffusione dell”agricoltura in aree sovente distanti dagli abitati. Per agevolarne la lavorazione i versanti  montani più acclivi furono sottoposti a terrazzamento e liberati dai massi, che pazientemente furono accatastati ai bordi dei campi, formando i caratteristici cumuli che ancora oggi contraddistinguono le zone un tempo coltivate. Spesso anche gli  antichi terrazzamenti risultano ancora chiaramente leggibili nei prati montani, come si può osservare ai Prati di Tivo,  nel comune di Pietracamela (TE), dove si spingono fino ad una quota superiore ai 1.300 m (foto n.6). Le specie vegetali coltivate fino a quelle quote dovevano comunque tollerare le locali condizioni termiche piuttosto severe. Nel teramano attualmente le coltivazioni d’alta quota sono state completamente abbandonate da vari decenni, ma è ancora vivo nella memoria di molti il ricordo dei campi coltivati, spesso allietati nella tarda primavera da vistose fioriture di piante messicole, situazione che ancora oggi si ripete nel Pian Grande di Castelluccio di Norcia, in Umbria, a circa 1350 m di quota.  Dati statistici sulle colture e le produzioni agricole nella Provincia di Teramo relativi al periodo 1881-1883 indicano che nel 1881 nel territorio di un comune montano come Fano Adriano, che contava 1481 abitanti (Teramo ne contava all’epoca 20.096, Montorio al Vomano 5942 e Giulianova 5891),  la coltivazioni di frumento coprivano una superficie complessiva di 150 ettari, quelle di granoturco di 100 ettari, quelle di orzo di 68 ettari, quelle di lenticchie di 20 ettari, quelle di fave, ceci, vecce e lupini di 40 ettari e quelle di patate di 40 ettari. Nello stesso periodo nel comune di  Pietracamela 200 ettari di terreno erano destinati alla coltivazione del frumento, 50 al granoturco, 118 all’orzo, 4 alle lenticchie e 30 alle patate. Le rese più elevate erano fornite dalle colture di patate, con medie di 75 ettolitri per ettaro a Fano Adriano ed 80 ettolitri a Pietracamela, mentre il frumento forniva 7 ettolitri per ettaro a Fano Adriano e 5 ettolitri a Pietracamela, il granoturco 5 ettolitri a Fano Adriano e 5 a Pietracamela, l’orzo 12 ettolitri a Fano Adriano ed 8 a Pietracamela, le lenticchie 2 ettolitri a Fano Adriano e 2 a Pietracamela. Nel territorio di Cerqueto si ricorda che le specie oggetto di coltivazione  erano essenzialmente  il grano tenero, soprattutto nelle varietà dette “Rossolone” e “Frassineto”, l’orzo, il farro, l’avena, il granturco nelle zone più idonee, leguminose come lenticchie, ceci, fave e cicerchia nonché l’ervo (Vicia ervilia), noto localmente come “jervi” e la veccia (Vicia sativa),  queste ultime piante di interesse zootecnico. L’ervo o mochi (Vicia ervilia) è una Fabacea la cui coltivazione ha preso avvio nel Neolitico in Asia Minore e si diffusa successivamente nei Balcani e nei paesi mediterranei, in Abruzzo ed a Teramo stessa i semi di questa pianta sono stati rinvenuti a partire da siti risalenti all’Età del Bronzo, per molto tempo essi sono stati impiegati anche per l’alimentazione umana, ma in seguito la pianta, la cui coltura sopravvive ancora in modo sporadico in poche aree, è stata destinata all’uso zootecnico. Il grano tenero denominato “Rossolone”, noto in Abruzzo anche per Fara Filiorum Petri (CH) da un documento del 1826, rappresentava probabilmente una cultivar derivata da una varietà molto più diffusa, conosciuta in Abruzzo come “rosciola” o “risciola”. Il grano tenero “rossolone” si caratterizzava per le cariossidi di colore rossastro, munite di reste. Caratteristiche queste che la avvicinavano alla varietà “rosciola”, da cui probabilmente si era originato, conosciuta in Abruzzo fin dal 1537 ed ampiamente diffusa  nella provincia di Teramo fino al 1800. Tra le varietà di grano tenero o grano bianco la “rosciola” si distingueva per la spiga rossastra, munita di lunghe reste, le cariossidi allungate dalla colorazione  compresa tra il giallo ed il bianco e soprattutto per la resistenza alle avversità meteorologiche, che la rendevano adatta alle zone montane. Attualmente la coltivazione di questa antica varietà sopravvive nei territori di alcuni comuni del versante meridionale del Gran Sasso come Santo Stefano di Sessanio, Castel del Monte e Calascio. La sua scomparsa è attribuibile alla diffusione di nuove varietà come quella denominata “Frassineto” selezionata da M. Michahelles negli anni ’20 del XX secolo, durante il periodo della cosiddetta “Battaglia del grano”, a partire dalla varietà “Gentil Rosso” nella tenuta dei conti di Frassineto, in Val di Chiana. In Abruzzo si registra la presenza anche di una varietà di grano tenero denominata “Frassinese” dotata di spiga aristata e portamento semiprostrato, forse una cultivar derivata dalla varietà “Frassineto”, che è ancora oggetto di coltivazione nel territorio di Civitella Messer Raimondo (CH).  Il grano “Frassineto”, attualmente incluso anch’esso nel novero delle varietà poco frequenti, possiede spiga mutica dalle sfumature grigio-azzurre e mostra una certa resistenza all’allettamento dovuto alle avverse condizioni atmosferiche. Forse  per questo riuscì ad affiancarsi alla varietà “Rossolone”  ed a sostituirla parzialmente nel territorio di Cerqueto. Secondo l’abate Berardo Quartapelle nel 1801 nella provincia di Teramo erano coltivate le varietà di grano tenero denominate “Rosciola”, “Carosella” (a spiga mutica), “Majorica”, “Serpentina”, “Granocchia” e “Cignarella”. Tra esse solo la Rosciola, la Carosella e la Majorica fornivano farina per la panificazione di buona qualità, forse per questo motivo rientrano tra i tipi ancora in coltivazione, nonostante la recente selezione di numerose nuove varietà. Spesso queste ultime  nel breve periodo possono presentare caratteristiche nuove vantaggiose, ma in seguito spesso rivelano aspetti negativi che ne determinano la rapida sostituzione. Nel corso del secondo dopoguerra il Consorzio Agrario di Teramo promosse la sostituzione delle varietà di grano tenero precedentemente coltivate nelle zone montane con altre ritenute più produttive, come il “San Pastore”, ottenuto nel 1931 da N. Strampelli nella tenuta San Pastore dei Principi Potenziani, presso Rieti, con l’incrocio del “Balilla” e del “Villa Glori”, e la varieta “Autonomia A” selezionata da M. Michahelles dall’incrocio del”Frassineto 405″ con il “Mentana” ed utilizzata dal 1938.  Queste nuove varietà non sortirono buoni risultati nel territorio di Cerqueto e si dimostrarono decisamente meno adatte  e  produttive dei frumenti precedentemente coltivati. Tuttavia ormai incombevano quei grandi cambiamenti degli assetti economici e sociali del territorio teramano che a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo condussero allo spopolamento dei centri montani ed al rapido abbandono della tradizionale agricoltura di sussistenza che vi si praticava.  Il regresso dell’agricoltura montana si è tradotto in una nuova espansione dei prati che successivamente possono essere colonizzati dagli arbusti pionieri per trasformarsi quindi in boschi. Tuttavia delle antiche coltivazioni rimangono comunque tracce destinate a durare nel tempo. Non si tratta solo dei terrazzamenti e dei cumuli di massi ma anche dei semi lasciati piante infestanti che vegetavano nei campi insieme alle specie coltivate, delle quali spesso hanno condiviso la storia ed i trasferimenti geografici. Piante spesso appariscenti come i papaveri, giunti dalle steppe dell’Asia  ed ancora tenacemente presenti presso i coltivi, nonostante l’impiego del diserbo chimico che le ha relegate negli incolti e lungo i margini stradali. Queste piante infestanti, antichissime compagne dell’uomo, sono definite archeofite a differenza delle nuove infestanti, pervenute nei nostri coltivi dopo la scoperta dell’America, che sono chiamate neofite. Le archeofite per sopravvivere nel peculiare ambiente degli agroecosistemi hanno evoluto complessi e singolari adattamenti che hanno consentito loro di sfidare per millenni i tentativi degli agricoltori di controllarne la presenza. Tra questi singolari adattamenti spesso vi è la capacità dei semi che finiscono nel suolo di mantenere la capacità di germinare per tempi lunghissimi, decenni o addirittura secoli. In questo modo le archeofite, spesso originarie di ambienti aridi, dove i semi possono rimanere quiescenti nel terreno per lunghi periodi in attesa delle piogge,  sono riuscite a superare le difficoltà determinate dalla rotazione dell colture.  Per questa ragione gli scavi effettuati in aree un tempo coltivate spesso sono seguiti dalla ricomparsa delle vivaci fioriture di piante messicole, come i papaveri, le adonidi, la nigella, germinate dai semi dormienti risvegliati dalla luce solare. Un tempo queste piante accompagnavano dovunque le colture di cereali con la loro vivace tavolozza di colori, ma in seguito soprattutto a partire dal secondo dopoguerra l’uso del diserbo chimico e la selezione delle sementi hanno determinato una drastica riduzione della loro presenza e la scomparsa delle loro variopinte fioriture. L’ultimo baluardo per molte di queste specie è stato rappresentato dalle coltivazioni di montagna dove il diserbo chimico si è diffuso in ritardo. Per questo motivo ancora oggi i campi di montagna possono ospitare una serie di piante segetali completamente scomparse  ed ormai dimenticate alle quote più basse. Le specie infestanti più vulnerabili spesso  sono quelle dotate di semi con periodo di germinabilità più breve, che pertanto non potranno essere facilmente riportate in vita da uno scavo accidentale. Tra queste vi è il fiordaliso (Cyanus segetum), (foto n. 7 ) il fiore azzurro dei campi ormai praticamente scomparso dai coltivi della provincia di Teramo. Segnalato in passato per tutte le aree, nel secondo dopoguerra ornava ancora i campi montani a Pietracamela, Pagliaroli, etc., ma il declino dell’agricoltura in queste zone sembra aver fatto scomparire la pianta anche da questi rifugi. Il fiordaliso, definito giustamente cornflower ‘fiore del grano’  in lingua inglese, colorava di azzurro talvolta in maniera massiva i campi di cereali nell’aquilano ancora  fino ai primi anni ’90 dello scorso secolo, ma anche in quelle zone attualmente si  è rarefatto. Tra le  altre piante messicole scomparse dai nostri campi vi è il gittaione (Agrostemma githago) (foto n. 8), pianta annuale alta 30-50 cm, dotata di grandi fiori lilla ed appartenente alla famiglia delle Cariofillacee. Il gittaione, presente ancora in maniera sporadica nei campi dell’aquilano, è peraltro una pianta tossica, soprattutto per quanto concerne i semi, che contengono il glucoside saponinico detto gitagina, che nell’antichità ha causato spesso avvelenamenti contaminando le farine. Un altra specie vistosa non ancora completamente scomparsa è lo specchio di venere (Legousia speculum-veneris), (foto n.9) appartenente alla famiglia delle Campanulacee. Questa  pianta dalla vistosa fioritura viola si può talvolta ancora osservare al margine dei coltivi, soprattutto in zone alto-collinari e montane, ma un tempo conferiva spesso una marcata connotazione cromatica  ai campi di cereali a tutte le quote. Lo stesso habitat può ospitare ancora lo sperone di cavaliere (Consolida regalis), (foto n. 10)   Ranuncolacea dotata di fiori dalla appariscente colorazione blu scuro o violacea, la cui frequenza si è molto ridotta rispetto al passato.  Ancora presente, ma in maniera rarefatta e discreta è pure la nigella di Damasco (Nigella damascena) (foto n. 11) dai fiori celesti e dai caratteristici frutti rigonfi. Oggi spesso si rifugia lungo i margini stradali, ai bordi dei coltivi e dei boschi radi. Gli stessi ambienti offrono rifugio al tulipano rosso dei campi (Tulipa praecox) (foto n.12), una specie originaria dell’Asia occidentale  e naturalizzata nell’Europa meridionale. Questa pianta dalla fioritura breve e vistosa  si mantiene a quote basse  ed è presente nei campi del teramano in maniera localizzata. Ambienti diversi, più collinari, predilige invece il tulipano giallo dei campi (Tulipa sylvestris) (foto n.13), specie un tempo comune, ma ora molto rarefatta nel territorio provinciale. Tra i fiori di colore rosso vi è l’adonide annuale (Adonis annua) (foto n.14), che possiede petali di ridotte dimensioni ma caratterizzati da una tonalità molto viva. Non è molto rara nei campi collinari, ma nelle zone montane diviene più frequente. Molto più comuni e vistosi sono i papaveri, che popolano i campi fin dai primordi dell’agricoltura e la cui denominazione pare risalire agli antichi Sumeri, che li chiamavano “pa pa”. Per gli antichi Egizi il nome di questi fiori era “nantì”, mentre nella antica Grecia il papavero era noto come “mecon”. La capacità di conservare la germinabilità dei semi dei papaveri raggiunge livelli straordinari  e si stima che nel suolo di un  campo di cereali che non sia stato sottoposto a diserbo chimico vi possano essere accumulati duecentocinquanta milioni di semi di papavero  quiescenti per ettaro, che gradualmente potranno continuare a germinare per tempi lunghissimi. Nel teramano la specie di papavero dei campi più comune è Papaver rhoeas, ma sono presenti anche Papaver hybridum e Papaver dubium (foto n. 15) Altre piante appariscenti  legate alle colture cerealicole sono le specie appartenenti al genere Anthemis (foto n.16) dai capolini simili a piccole margherite, ancora abbastanza frequenti a differenza dell’ingrassabue (Glebionis segetum),dotato di capolini più grandi, interamente di colore giallo, ormai molto raro nei nostri campi. Più facile è imbattersi nel gladiolo delle messi (Gladiolus italicus) (foto n. 17), Iridacea dotato di perigonio di colore lilla  che vegeta anche negli oliveti. Un tempo era presenta in grandi quantità e poteva colorare intensamente i coltivi durante il mese di maggio, attualmente compare invece in maniera più isolata. Si potrebbero aggiungere all’elenco varie altre entità rarefatte come il pettine di Venere (Scandix pecten-veneris), la viola dei campi (Viola arvensis), Malva punteggiata (Malva punctata) (foto n. 18)   etc., ma queste infestanti spesso sono contraddistinte da una fioritura molto più discreta e contribuivano in minor misura alle tipiche connotazioni cromatiche del paesaggio delle aree coltivate.  Oggi, come è noto, si tende a recuperare le antiche variètà locali di specie coltivate  che  spesso si sono sviluppate nel tempo sotto l’influenza delle condizioni prevalenti di clima, suolo e tecnica colturale anche in assenza di una selezione sistematica. In Abruzzo, tra i cereali è stata notevolmente rivalutata la varietà di  grano tenero noto come solina, solia o grano nostrale, la cui denominazione potrebbe  forse rimandare a siligine (siligo in latino), il grano tenero più apprezzato in epoca romana. Una varietà quindi di origine antichissima e ben adattata alle condizioni climatiche dei rilievi abruzzesi. Ma il recupero delle antiche colture passa anche per il rispetto dei metodi di coltivazione legati alla tradizione che non prevedeva sicuramente il diserbo chimico per le colture. Alcune delle antiche varietà di frumento erano in grado di competere in maniera abbastanza efficace con la flora messicola grazie al loro elevato grado di accestimento, al portamento tendenzialmente semiprostrato ed alla taglia alta, ad esempio il grano “Frassineto” tendeva ad ombreggiare il suolo, limitando in questo modo lo sviluppo delle piante infestanti. Il recupero delle antiche varietà locali di cereali, adattate al clima montano appenninico e dotate delle opportune caratteristiche morfo-agronomiche  potrebbe rappresentare la strada migliore per restituire una prospettiva di sviluppo, in chiave ecologica, all’agricoltura nelle zone montane. In questo modo si conseguirebbe anche il ripristino di quei paesaggi agrari ad elevato livello di biodiversità, contraddistinti dalla vivacità dei cromatismi stagionali dovuti al succedersi delle fioriture e delle fasi vegetative, che ancora sono vivi nella nostra memoria collettiva.

Nicola Olivieri

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