2 Dicembre 1942


DRAMMATICA BATTAGLIA  NEL CANALE DI SICILIA:
racconto  di guerra di Giuseppe Mastrodascio

Giuseppe Mastrodascio, classe 1921, ha vissuto incredibili traversie durante il servizio militare, durato ben cinque anni e iniziato nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Fu chiamato alle armi nel dicembre del 1941. Destinato dapprima a L’Aquila (13° reggimento fanteria) e da qui in diverse località (Agropoli (SA), Specchia (LE), Caserta) per il necessario addestramento, nell’ottobre del ’42 fu, infine, inviato a Torino ed assegnato al 92° Reggimento Fanteria.

Proprio sul finire del 1942 ci fu  un’inversione di tendenza per le sorti della guerra: a partire dalla drammatica situazione delle forze tedesche ed italiane bloccate a Stalingrado, sul fronte russo (dove morirono o risultarono dispersi anche alcuni cerquetani tra i quali Agostino Mastrodascio, fratello maggiore di Giuseppe, Arcangelo Misantoni, Pasquale Mazzetta e Antonio Ruscio), cominciò un periodo di ripetute vittorie delle forze alleate, soprattutto nel Nord Africa.

Alcuni giorni dopo la sconfitta italo-tedesca ad El Alamein, gli anglo-americani, precisamente l’otto novembre 1942, si insediarono in Marocco e in Algeria. Fu uno dei momenti  decisivi della guerra. La conquista del Nord Africa da parte alleata apriva infatti le porte alla conquista dell’Italia, privando così la Germania di un alleato comunque fondamentale e creando un passaggio cruciale verso il resto dell’Europa, soprattutto in caso di un  fallimento del preventivato sbarco sulle coste francesi.

L’Italia e la Germania reagirono immediatamente e, dai porti dell’Italia meridionale, partirono verso la Tunisia i primi reggimenti per ostacolare l’avanzata americana. La mattina del primo di dicembre, alle ore 10.00,  partì dal porto di Palermo uno di questi convogli, diretto verso il porto tunisino di Biserta.  Il convoglio, denominato “Convoglio H”, era formato dai piroscafi KT-1 (tedesco), Aventino, Puccini ed Aspromonte. A bordo del convoglio c’erano 1766 militari (la maggior parte appartenenti alla Divisione Superga) e settecento tonnellate di munizioni e materiali. La scorta, comandata dal capitano Aldo Cocchia responsabile pure del convoglio, era composta dalle 3 cacciatorpediniere Nicoloso da Recco, Camicia Nera e Folgore e dalle due torpediniere Clio e Procione.

Sulla Puccini era imbarcato anche Giuseppe Mastrodascio. Quello che segue deriva in massima parte dal suo racconto riguardo la vicenda che avrebbe per sempre segnato la sua vita: i suoi ricordi, a distanza di quasi settant’anni,  sono ancora nitidi, come solo gli eventi straordinari, magnifici o terribili che siano, possono essere.

Verso sera le navi vennero intercettate dagli aerei inglesi, che avevano illuminato il mare con il lancio di numerosi bengala. La tensione a bordo crebbe enormemente, anche perché arrivavano notizie confuse e spesso contraddittorie sul fatto che una consistente flotta britannica era uscita da un porto della Tunisia e si stava dirigendo verso il convoglio. Gli aerei nemici si limitavano a non perdere di vista la posizione delle navi italiane.

Il cielo era coperto di nubi ed era evidente che prima o poi sarebbe arrivata la pioggia, anche le onde del mare cominciarono ad aumentare.

Alle 21.40 arrivò la notizia che un aereo tedesco aveva avvistato al largo delle coste tunisine una pattuglia di navi inglesi che si dirigeva a tutta velocità verso est: i messaggi radio si susseguivano con continuità, ma era chiaro che non ci poteva essere nessun appoggio e soccorso al convoglio. Quando, verso le 24.00, le navi arrivarono in prossimità del Banco di Skerki (una dorsale subacquea, situata tra Sicilia e Tunisia, che dopo la seconda guerra mondiale fu soprannominata “rotta della morte” perché, tanto per rimanere in tema, fu teatro di diverse battaglie che portò all’affondamento di oltre cento navi) erano già parecchi minuti che non arrivavano più i messaggi radio della marina, non si vedevano più i bengala illuminare il cielo e non si sentiva più il rumore dei velivoli: sembrava fosse tornata la tranquillità. La flotta italiana avanzava comunque in formazione di difesa: il convoglio al centro, Da Recco e Procione davanti, Clio e Camicia Nera di fianco e Folgore a poppa.

Improvvisamente l’orizzonte fu rischiarato dalla luce diffusa da innumerevoli bengala. Dalla scorta italiana vennero allora prodotte delle cortine fumogene che simulavano un banco di nebbia, per cercare di occultare le navi.

L’allerta ora era all’apice. Alle 00.37 del 2 dicembre, da qualche chilometro di distanza e dalla parte opposta a quella dove si erano illuminati i bengala, partirono le prime fiammate dell’artiglieria britannica. La formazione inglese (chiamata Forza “Q”), composta da tre incrociatori leggeri (Aurora, Sirio e Argonaut) e da due cacciatorpediniere (Quiberon e Quentin), dotata di un importantissimo nuovo strumento di individuazione come il radar e assistita e sostenuta dagli aerei che lanciavano illuminanti, aveva una potenza preponderante rispetto a quella italiana. Quest’ultima poteva solo contare sul valore dei suoi equipaggi, ma la lotta era impari sotto tutti gli aspetti.

Il primo ad essere colpito in pieno fu il piroscafo tedesco KT-1 che colò a picco portandosi con sé tutto il suo equipaggio, senza lasciare alcun superstite.

Le navi della scorta italiana, su ordine del comandante Cocchia che si trovava sul Da Recco, si diressero verso il nemico per attaccarlo e per cercare di utilizzare al meglio i siluri in dotazione:  il Folgore, scoperto, venne colpito più volte, ma continuò ad andare avanti. Gli inglesi concentrarono allora tutta la loro potenza di fuoco su di esso facendo strage all’interno. Il comandante Bettica, dopo aver lanciato tutti i siluri a disposizione, cercò di salvare la nave e l’equipaggio invertendo la rotta verso Cagliari, ma ormai questa era inclinata dal lato della prua e completamente in fiamme; infine si inabissò col suo comandante e con parte dell’equipaggio. Il Da Recco era riuscito ad avvicinarsi, non visto, alle navi inglesi che erano alle prese con l’affondamento del Folgore, ma fu sfortunatamente tradito dalla non perfetta tenuta di una valvola di intercettazione, la quale provocò la fuoriuscita di nafta ed un conseguente rogo. Immediatamente avvistato fu centrato dai colpi di artiglieria. Il deposito di munizioni deflagrò prendendo fuoco e un’enorme vampata carbonizzò e uccise  o ustionò gravemente tutti quelli che si trovavano sul suo passaggio. Distrusse inoltre tutti i collegamenti elettrici e radio isolando la nave, e quindi gli ordini del comando, dal resto del convoglio. Lo stesso comandante fu gravemente ustionato al volto ed in larga parte del corpo. Vista la nave completamente avvolta dalle fiamme il nemico l’abbandonò al suo destino.

La torpediniera Procione fu colpita all’armamento di prora e, col timone in avaria, cercò di allontanarsi imbarcando molta acqua. La torpediniera Clio continuò nel suo compito di coprire il convoglio mediante cortine nebbiogene.

Rimasti però privi di protezione, i mercantili erano ormai facile bersaglio. Cominciò la strage.

L’Aventino fu lacerato da un’infinità di proiettili che decimò il suo carico umano e affondò in cinque minuti.  L’Aspromonte cercò di distanziarsi dal convoglio, ma fu raggiunta e circondata da numerosi bengala: la prima salva cadde in mare alzando enormi colonne d’acqua, la seconda però colpì il ponte di comando uccidendo tutti i presenti.

Il cannoneggiamento continuò finché la nave, dopo una violentissima esplosione, alle ore 1.29 scomparve in mare.

Anche la Puccini, sulla quale si trovava Giuseppe Mastrodascio, fu attaccata. Il ponte di comando fu spazzato subito via. La nave, che insieme ai militari trasportava anche le munizioni, prese quasi istantaneamente fuoco con “fiamme che arrivavano fino al cielo”. I pochi superstiti, tra cui Giuseppe, non uccisi dai bombardamenti incrociati, abbandonarono la nave per ordine del comandante e si gettarono in mare col salvagente. Anche l’azione di abbandonare una nave provoca però morti e feriti non causati dalle bombe, soprattutto quando questa è inclinata da un lato. Così, molti rimasero schiacciati o andarono a finire sotto la fiancata senza alcuna possibilità di riemergere. Di coloro che, senza usare le funi per la ressa, si lanciarono in mare dalla facciata opposta, quella emersa, non tutti riuscirono a cadere direttamente in acqua, ma alcuni si ferirono, anche mortalmente, sulle parti sporgenti dell’imbarcazione oppure per l’impatto in acqua da considerevole altezza. Le vertebre del collo di alcuni vennero danneggiate dai giubbotti salvagente e molti poi morirono a causa delle esplosioni subacquee dei siluri (essendo l’acqua incomprimibile) o risucchiati nei vortici provocati dalle navi in affondamento.

Giuseppe comunque si ritrovò in mare quasi incolume; il contatto con l’acqua fredda invernale fu traumatico, il mare poi era mosso e  la pioggia cadeva ormai con insistenza. Sentiva allontanarsi sempre più le grida di coloro che si erano lanciati prima di lui portati via dalle onde mentre molti altri morivano crivellati dai colpi sparati dalle navi e dagli aerei nemici.

A qualche decina di metri vide una scialuppa che trasportava una quarantina di naufraghi, con uno sforzo enorme riuscì a raggiungerla e una mano l’aiutò a salirci sopra, salvandolo da una morte terribile. Qui molti furono colpiti dai proiettili. Ricorda ancora con sgomento un sottotenente cui un militare aveva ceduto un posto un po’ più comodo: dopo qualche minuto fu raggiunto da una raffica che gli recise di netto la testa ed il corpo cadde di schianto in mare. Un’altra raffica uccise il soldato che gli aveva teso la mano per aiutarlo a salire. Molti erano feriti o semicongelati così, ogni volta che l’imbarcazione veniva pericolosamente avvolta dalle onde del mare in tempesta, il numero degli occupanti diminuiva: alla fine sulla barca insieme a lui rimasero solo una ventina di persone.

Alle 01.35 del 2 dicembre 1942, dopo circa un’ora davvero infernale, la battaglia finì insieme con la vita di 2200 persone. Dei 1766 soldati presenti sulla Puccini e sull’Aventino se ne salvarono solo 239.

Dopo diverse ore i naufraghi, semisvenuti, vennero raccolti dal cacciatorpediniere Camicia Nera, che era rimasto quasi incolume, e trasportati, insieme al tragico carico delle salme dei caduti recuperate, verso Trapani.

La motonave Puccini, avvolta dalle fiamme e abbandonata per ordine del comandante che scomparve in mare con molti altri naufraghi, fu affondata dal Camicia Nera poiché era ormai inutile rimorchiarla.

L’equipaggio superstite sul cacciatorpediniere Da Recco domò le fiamme ed il comandante Cocchia, gravemente ustionato e privato della vista, riuscì a riportare l’imbarcazione semidistrutta al porto di Trapani.

Dopo questa drammatica vicenda, Giuseppe fu in seguito, con l’invasione della Sicilia da parte delle forze alleate, fatto prigioniero dagli americani. Qui si incontrò con il compaesano Beniamino Mazzetta ed entrambi furono deportati negli Stati Uniti, in Georgia e tornarono in Italia solo nel 1946.

Nei prossimi numeri approfondiremo i ricordi di guerra di altri cerquetani, perché davvero la seconda guerra mondiale è stata occasione di esperienze estreme e incancellabili nella mente di chi le ha vissute.

Una persona testimone di molti episodi della seconda guerra mondiale era Stanislao Mazzetta (fu prigioniero degli inglesi in India), che purtroppo ci ha lasciato qualche mese fa. Era molto piacevole parlare con lui perché, come suo fratello Antonio Mazzetta, era una persona curiosa della vita ed ottimista, attratta dalla scienza e soprattutto dalla tecnica. Ricordava con precisione diversi avvenimenti  della guerra, da prigioniero aveva anche imparato l’inglese e lo parlava tuttora. Sarebbe stato sicuramente  un attento lettore del nostro giornale ed  un ottimo collaboratore!
Il_banco_di_Skerki – Il luogo della battaglia

Angelo Mastrodascio

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