La festa di S.Egidio

Il dì di festa il suono delle campane apriva la giornata di S. Egidio ma i preparativi erano iniziati molti giorni prima.

Si occupavano di organizzarla cinque deputati, nominati dal sacerdote, durante la messa di mezzogiorno del 15 Agosto. Era un onore fare “lu dïputatë dë Santaggidië.

I deputati giravano casa per casa e chiedevano “la lïmosinë” per la festa. Portavano un quaderno su cui annotavano le varie somme che ogni famiglia offriva. “Sta ppassà li dïputatë. Preparë lu cumplimentë, pijë caccusë!”. Con il saluto “Santaggidië të l’armiedië, Santaggidië të larcumpensë!” continuavano il giro.

Secondo l’entità della somma raccolta, decidevano le cose da fare. Spesso la banda arrivava la sera della vigilia, il 31 Agosto. L’armonia dell’aria vespertina del settembre in arrivo si mescolava ai botti e alla “marcia di Radeschi”, che rallegrava le vie di Cerqueto e i nostri cuori. Intanto si preparavano le “scarpellë” e il sugo per il timballo e si condiva l’arrosto. Il giorno della vigilia non si mangiava carne, era peccato! A mezzogiorno, con il concerto delle campane a festa, il sacerdote esponeva su un antico leggio le regole per ottenere l’indulgenza plenaria, sancita dai dettami della Bolla del Papa Eugenio IV (al secolo Gabriele Condulmer di Venezia) del 1432. Le funzioni e i riti assorbivano buona parte della festa, sicuramente la parte più ricca  e di  fascino antico.

Si andava a dormire all’ultimo tocco di campana, all’apparire delle stelle, in un cielo blu, più blu dei nostri sogni e delle nostre speranze di fanciulle, serene e felici di vivere.

All’alba del 1° settembre le campane svegliavano tutti. Che meraviglia! I rintocchi si univano al cinguettio degli uccellini. Ci alzavamo anche noi. Si accendeva il fuoco, il gas a due fiamme non bastava per cuocere la gallina, che era la più vecchia del pollaio e non faceva più le uova. Si preparava la tavola con i piatti “buoni” e le posate nuove e poi, indossato il vestito bello, si toglievano finalmente i bigodini, che ci avevano “torturato” la testa, e, pronte per cantare, andavamo a messa.

Oltre al sacerdote, venivano altri dai paesi vicini e tornavano sempre due padri francescani di Cerqueto: padre Domenico e padre Silvestro, che vivevano in Umbria. Padre Domenico accompagnava col suono dell’organo i nostri canti e Padre Silvestro immancabilmente impartiva la benedizione delle reliquie. Tutti i cerquetani cercavano di tornare per S. Egidio e chi proprio non poteva, come i miei nonni che erano in America, lo festeggiava come se fosse stato presente. Andava a messa, cucinava “alla cerquetana” e con l’aiuto del cuore e della mente “sentiva” il suono delle campane a festa, i canti della processione, la benedizione  e gli spari. “Ha fattë nu tuondë che sembre la’mbrascatë dë Santaggidië!”.

Più si sparava, più si onorava il Santo. Sinceramente quei rumori, così forti, non mi piacevano tanto. Dopo la messa solenne, i canti, la processione che toccava tutte le vie, c’era la benedizione con le reliquie dei Santi. Erano conservate in reliquiari antichi e preziosi nelle due nicchie dell’altare maggiore. S. Egidio si poggiava nel pianerottolo della casa canonica accanto ai celebranti, i bambini e lo stendardo. Nello spazio antistante, come un anfiteatro, si radunava tutto il popolo con la banda, le autorità e i carabinieri. Mi piaceva il loro saluto al Santo! I balconcini della casa di Serafina erano sempre pieni! Un anno ci sono stata anch’io con la zia Dina. Quando tutto era sistemato, un sacerdote, aiutato dagli altri che gli porgevano via via le sante reliquie, cominciava cantando:

“In quest’ostensorio si conserva…” per terminare con la reliquia del nostro protettore S. Egidio abate. “Benedictio Dei Onnipotenti: Patri et Filii et Spiritus Sancti!”. Qui lo stacchetto della banda diventava più lungo e “la’mbrascatë rintronava tra i  colli e i sassi dei nostri monti”.

L’emozione diventava tangibile e gli occhi si riempivano di lacrime, le voci più fioche ricantavano “Oh! Gran Santo” e si rientrava in chiesa con S. Egidio.

Tornati a casa, si consumava”lu pranzë dë Santaggidië” assieme a uno o due bandisti e qualche ospite capitato per caso. La festa continuava nel pomeriggio al Colle o all’inizio di Cerqueto, sotto la casa di “zì Emmina”, dove spendere qualche lira da “lu cinciare” era piacevolissimo. “Lu cingiarë” era un venditore ambulante, un uomo grigio, dalla lunga barba bianca, con qualche dente e con una smorfia triste, sarcastica, dovuta certamente alla fatica di camminare a piedi nelle strade dei paesi col peso di una cassetta e allo scarso cibo che raggranellava col misero negozio.

Al rione Colle appoggiava la cassetta ad un’acacia, sotto la casa di Serafina. Quando l’apriva dai vari cassettini, scegliere quello che volevamo comprare era difficile: pettini, pettinini, pettinesse, fermagli, tenajole, ditali, aghi, ferri, uncinetti, collane, saponette, boccette di violetta di Parma, occhiali, occhialini e l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Prendeva in cambio anche stracci di lana, pezzi di rame e d’alluminio. Ad un’altra acacia (a proposito di acacie ce n’erano diverse; belle,  maestose e a primavera i numerosissimi fiori bianchi profumavano l’aria e le aule della nostra vecchia scuola). C’era Menichetta vecchia, sempre “cu lu purtaspaisë in testa”, un foulard di cotone a quadretti neri e blu e, più in là, Menichetta giovane. Venivano da Montorio a piedi. Le loro mercanzie erano diverse: una portava la frutta, i dolcetti, caffè in grani, zucchero e caramelle, l’altra stoviglie, pentole, vassoi di coccio (com’erano belli quelli con le macchie verdi!). Francesca di Corropoli vendeva la mortadella a pezzi, scatolette di tonno e cioccolata a fette. In  cambio prendeva anche pizze di formaggio “il prelibato cacio di Cerqueto” che piaceva tanto al marito, guardia municipale di Montorio, la cui misera paga non bastava a sfamare la numerosa famiglia. C’erano anche altri ambulanti con lecca-lecca, noccioline, lupini e zucchero filato.

Erano i tempi in cui si andava a vedere la televisione su “lu mondë”, l’unico televisore del paese donato dal sindaco Sor Ettore, e della sedia sulle spalle per non stare in piedi. In quel periodo c’era Don Giuseppe che ci insegnò a cantare la messa degli angeli e le altre canzoni religiose tra le quali “Oh! Gran Santo”. Mi chiamava “la maestra” prima che mi diplomassi ed aveva grande stima di tutte noi. Un giorno decise che doveva fare il missionario e partì per il Burundi. Arrivò Don Nicola che creò per le ragazze un laboratorio di maglieria e intraprese tante iniziative importanti, come il Museo del Folklore.

Fu proprio in quegli anni che nacquero “Li Mazzemariellë”. Il nome deriva dagli gnomi benigni che popolano “lu Fuosso dë Santarparatë” e quando muore una persona buona accompagnano l’anima con i loro campanelli. È un’antica e bellissima leggenda che ricorda “Il paese dei campanelli”.

L’idea fu della signora Peppa, una maestra di Cerqueto, vissuta a Teramo assieme alla mamma Pierina, vedova dalla Prima Guerra Mondiale, e con una luminosa famiglia.

La signora Peppa, d’estate, ci sentiva cantare in chiesa. Un giorno ci invitò a casa per chiederci se volevamo creare un gruppo. Fummo tutti entusiasti. Solo noi eravamo in sei: le cinque sorelle Di Matteo e il mitico, splendido caro Gek, nostro fratello. Rita recitava “la ranara”:

La gente tutti dice ca so stuta
E intanto ancora nun trovo lu marito
Chi mi vuleva bene sà perduto
E ije pare na rosa cà sfiurite
Endì endì endì
Endì endì endà
Ije tinghe la ranara e ngì pozze mennà
Endì endì endì
Endì endì endà
Ije tinghe la ranara engì pozze mennà
Ije sacce fa nu sacche de massciate
Mai nisciune mà messi na pecche
Ije nun so state mai sbruvignate
E manghe na fanatiche e na lecche
Endì endì endì…

Ije porte pe dote na casarelle
Na casce de cuperte e de lenzole
Ije magne coma si fussi nu celle
Ije veste coma se fussi na sora
Endì endì endì…

Ma pe dispetto vuje fa la matta,
Sicuramente trovo chi me spose
Malliscia come se fusse na gatta
Maddora come se fusse na rosa
Endì endì endì
Endì endì endà
Ije pije la ranara e cumense a mennà (x2)

Rita recitava anche “lu pranzo della sposa”, che le aveva insegnato lo zio Rocco, un vecchio simpatico che morì in un brutto giorno d’agosto, nel fuoco, fra le sterpaglie dei Canili.

Ci esibimmo in un pomeriggio di S. Egidio e il successo fu grande. Negli anni venivano a sentirci anche dai paesetti vicini. A me bastava che fosse presente solo una persona. Il nostro repertorio era composto da canti e stornelli cerquetani, anche inventati là per là, da scenette prese da un libro dell’avvocato teramano Brigiotti, dal poeta Modesto Della Porta e adattate dalla signora Peppa e da tutti noi. Eravamo attori, cantanti, ballerini, produttori, registi. Mio fratello suonava la fisarmonica, cantava e ballava contemporaneamente. Come facesse a coordinarsi è ancora un mistero. C’erano Carino all’organetto e Maurizio alla pianola che accompagnavano il nostro canto e i nostri balletti. Lo spettacolo, in costume cerquetano, durava circa due ore e iniziava col saluto al vescovo, quando c’era, a Don Nicola e al sindaco e tutto terminava con “Vola Vola” e con tanti applausi. Poi si andava all’estrazione del Palio e alla conquista del palo della cuccagna. Quanto sego e quanta fatica…specie per i primi che tentavano la scalata! Dopo la funzione e la cena ecco lo sparo: i ghirigori si confondevano con le stelle. La festa terminava con l’ultimo botto e con l’ultima fugace scia luminosa che, repentinamente, attraversava il cielo.

“A quantë ha joïte la statua uonnë?” (A che prezzo è andata quest’anno la statua?)

Era la domanda di tanti. Durante la processione il gruppo che portava la “statua” si era messo d’accordo sulla cifra da offrire. Ma un altro gruppo andava ad aumentare il costo e chi, come in un’asta, offriva di più aveva l’onore di riportare la statua in chiesa. Così pure per lo stendardo. Chi dava più soldi prendeva il premio: un ciambellone, qualche salame, qualche bottiglia di vino e, a volte, anche un prosciutto. Ma una cattiva stagione ci rubò l’incanto della festa come i ladri il tesoro della chiesa nostra.

Non ci resta che il ricordo struggente e l’amara tristezza che lasciano le cose care perdute per sempre.

Rema Di Matteo

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