La zampogna cerquetana

La zampogna cerquetana, conservata nel Museo Etnografico delle Tradizioni Popolari di Cerqueto, individuata dalla etnomusicologa Giuseppina Giovannelli nella metà degli anni’80, rappresenta  una traccia importante della ben nota zampogna zoppa o scupinë, un tipo di zampogna teramana o più precisamente della Valle Siciliana, dalle caratteristiche ben definite nel vasto panorama delle zampogne. È opportuno,  nell’affrontare la trattazione di uno strumento musicale come la zampogna, parlare delle sue origini, della sua diffusione e sopravvivenza e stabilire come questa si sia caratterizzata e differenziata nell’area dell’Italia centrale e, quindi, in Abruzzo e nel Teramano, dove ancora perdura.

Il termine sampògna pare fosse un termine antico che ci riporta al termine greco synphonia, ereditato dai romani, che significa accordo di voci e suoni e che nel Medioevo in campo musicale veniva opposto a diafonia, dissonanza. Già per gli Assiri, 2000 anni prima di Cristo, la sumponiah era uno strumento popolare,  come  popolare è stata senza alcun dubbio la zampogna in Abruzzo e nella  nostra zona, legata alla spontaneità dei suonatori, che suonavano esclusivamente per  il proprio e l’altrui piacere. Strumento millenario, di carattere pastorale, che si ritiene derivato dal flauto di Pan, o siringa, tibia utricularis per i Romani, mediante l’innesto di alcune canne, divenute poi pive di legno, per secoli è stato l’elemento fondamentale di tutte le feste, familiari e sociali, battesimi, processioni, matrimoni. Il repertorio comprendeva sonate, pastorali, salterelli, quadriglie, polche e serenate in grado di soddisfare qualsiasi esigenza di intrattenimento e anche devozionale, dalla Passione al Natale.

Gli zampognari da sempre sono stati associati principalmente ai pastori delle montagne abruzzesi. E l’arte della zampogna è stata l’arte dei veri abruzzesi, i pastori.  Il poeta G.G. Belli, attento osservatore di tradizioni popolari romane, ci regala l’atmosfera delle zampogne in due sonetti, in cui descrive l’attesa dei pifferai e annota che erano “…abruzzesi suonatori di pive e cornamuse o cennamelle che il popolo chiama “ciaramelle”, vestiti di mantelletti rattoppati che raramente giungono loro al ginocchio”. “…niuno può vantarsi di aver mai inteso ciò che essi cantano” aggiungeva il Belli ma, in fondo, era l’atmosfera che contribuivano a creare la cosa importante, non il testo delle loro canzonette.
E ccorninceno ggià li piferari / a ccalà da montagna a le maremme / co cquelli farajòli tanti cari! /Che bbelle canzoncine! oggni pastore  / le cantò spiccicate a Bbettalemme  /ner giorno der presepio der Zignore”. (Li ventiscinque novemmre -18 novembre 1831)
e a mmé mme pare che nun zii novella / si nun zento sonà li piferari: /co cquel’ annata’ de cantasilena /che sserve, bbenemio!, sò ttroppi cari. / Quann’ è er giorno de Santa Caterina /che li risento, io ciarinasco ar monno: / me pare a mmé dde diventà rreggina. / E cquelli che de notte nu li vonno? /Poveri sscemi! Io poi, ‘na stiratina, / e mme li godo tra vviggijj’ e ssonno.”  (La novena de Natale – 23 dicembre 1844)

I pifferari, che dovevano richiedere una speciale autorizzazione alla polizia, si trattenevano a Roma fino alla domenica successiva all’Epifania, quando facevano ritorno ai loro paesi insieme ai loro concorrenti, i Carciofolari, suonatori di arpa. Il periodo natalizio era un periodo di fermo per i lavori agricoli e pastorali per cui i pastori si potevano allontanare dalle loro case e guadagnare qualcosa. Le figure arcaiche, quasi misteriose di questi rozzi pastori provenienti dalle montagne, nel segno di tradizioni secolari con la loro musica fortemente evocativa, colpivano la fantasia e l’estro di molti artisti, poeti, scrittori ma anche musicisti.  Hector Berlioz scrisse di essere rimasto affascinato da questi musicisti di strada, da lui seguiti per ore per le piazze e le strade  e poi ricercati tra le montagne abruzzesi. All’Abruzzo  Berlioz dedicò una composizione “Sérénade d’un montagnard des Abruzzes à sa maîtresse” compresa nella sinfonia “Harold in Italie”. Il musicista tedesco Ludwig Felix Mendellsohn scrisse le sue pastorali ispirandosi alle dolci e melanconiche melodie delle zampogne. Anche una pastorale del Messiah di Handel ha tratto ispirazione dalle melodie popolari degli zampognari. William Gillespie, un turista americano in visita a Roma nel dicembre 1843, scriveva: «Già un mese prima di Natale le strade sono percorse da suonatori ambulanti di zampogne che sono detti Pifferai. Sono personaggi molto pittoreschi, dall’aspetto di banditi, con alti cappelli a pan di zucchero, decorati con piume e nastri svolazzanti, con mantelli di pelle di pecora, le gambe avvolte da strisce di panno a vivaci colori, i capelli lunghi e le barbe cespugliose. A Broadway farebbero un effetto sensazionale». Si fermavano, prima del sorgere dell’alba, davanti alle edicole sacre, negli androni dei palazzi, nelle stalle delle latterie, intonando le loro cantilene. Non tutti gli animi, però, erano ben disposti ad ascoltare le loro nenie anche se il popolo era loro molto affezionato.  Annotava Stendhal nelle sue Passeggiate romane, del 1829: «Da quindici giorni siamo svegliati alle quattro di mattina da pifferari… Costoro farebbero venire a nausea la musica. (…) Nulla è più odioso come essere risvegliati a notte fonda dal malinconico suono delle loro zampogne...».

Diversi studi etno-musicologici hanno identificato l’alta valle dell’ Aniene come centro  della zampogna, come terra di una forte tradizione  per l’origine, l’uso e la costruzione di uno degli strumenti musicali più caratterizzanti la civiltà contadina e pastorale del centro-sud d’Italia. In particolare questa zona si attestava fino ai primi anni  ’80 come zona di conservazione di un particolare tipo di zampogna, quella detta zoppa, che invece era pressoché scomparsa nelle altre zone del Lazio, dell’Abruzzo e del Molise, sostituita dalla più moderna zampogna a chiave. La zampogna è stata sempre, per secoli, legata a norme di vita associata, a sviluppi musicali largamente diffusi e condivisi tra i costumi delle popolazione di pastori sia in Abruzzo che nel Molise e nel Lazio. Non esiste pertanto una limitazione topografica per questo strumento  con esclusione dell’Abruzzo, terra di pastori da sempre, esclusione  imposta da Roberto Leydi a vantaggio del Lazio e del Molise. Tra pastori laziali, abruzzesi e molisani ci sono stati scambi continui e consistenti. Diverse popolazioni, venute a contatto attraverso i movimenti migratori dei pastori,  hanno collaborato alla realizzazione delle zampogne.  Come creazione della collettività,  la zampogna appartiene a tutti e non può essere prerogativa di questa o quella località.  I tratturi, istituiti da Alfonso D’Aragona nel 1447, sono stati percorsi per secoli per svernare nelle Puglie dall’Abruzzo e verso le pianure laziali. Nel periodo estivo erano i pastori della campagna romana a transumare nelle montagne dell’Appennino, alla ricerca di fresco. Le varianti relative allo strumento passavano da un pastore all’altro e da un territorio all’altro. Rintracciare gli autori sarebbe utopistico.  Il modello di zampogna zoppa ha dominato per molti secoli nel centro Italia e sicuramente,  fino ai primi decenni del 900, anche nella nostra zona, seppur in misura ridotta a partire dalla fine dell’800. Chi non fosse convinto dell’origine abruzzese di tale strumento, può trovare una significativa  e chiara dimostrazione e documentazione nell’interessante ricerca “La sposa lamentava e l’Amatrice…” (Pescara, Editrice “Nova Italica”, 2001), curata da Piero G. Arcangeli, Giancarlo Palombini e Mauro Pianesi.  A pag. 69 è scritto: “Numerose sono le testimonianze sulla costruzione in loco (Amatrice, ex Abruzzo) dello strumento: tutti i suonatori intervistati hanno affermato che i loro antenati, quasi tutti pastori, nelle lunghe ore che passavano a guardia del gregge, avevano tempo per lavorare a coltello i chanters delle ciaramelle, una volta che essi erano stati forati”.

La zampogna  è un aerofono, strumento a fiato, costituito da un otre, nella quale sono fissati generalmente 4 tubi sonori conici ad ancia doppia. Due di essi, chiamati chanters, ossia canne di canto,   sono forniti di 4 o 5 fori, che danno la scala, senza semitoni, e servono per eseguire la melodia; gli altri, chiamati bordoni, sono a suono fisso. La sacca accumula l’aria immessa dal suonatore attraverso un insufflatore. L’aria fa vibrare le ance innestate sulle canne melodiche. L’estensione della zampogna copre un’ottava e la struttura scalare è distribuita sui due chanter. Le mani suonano tra due fusi diversi, accordati a un’ottava l’uno dall’altro e  le forme zoppe suonano ad una quarta di differenza.

La zampogna cerquetana a campana aperta, nota come ciaramella,  rappresenta un modello arcaico e primitivo di zampogna. L’uso di questo tipo di zampogna, sostiene Maurizio Anselmi, “ era di tipo solista” e veniva suonata “con l’accompagnamento del tamburello”. “La sua presenza in questa zona era attiva e conservava le sue funzioni sino a non molto tempo fa, tanto che tutti, chi più chi meno, sono in grado di fornire informazioni sullo strumento”. Anche Romolo Trincheri riconosce che quando dalla ciaramella si traeva la musica del salterello vigeva l’uso di accompagnare al suono della ciaramella quello della tamburella. La zampogna cerquetana , come afferma Vito Giovannelli, si distingue “per il profilo esterno dei suoi chanters e dei suoi bordoni, per la svasatura “a collo distinto” delle campane ai fusi, per le canne monoxili (ricavate da un unico tronco), foggiate completamente a mano”. “Nell’affascinante ricerca dell’identificazione dei sottomodelli, la silhouette diventa distintivo di riconoscimento fino a far ravvisare proprio nel profilo i caratteri della diversità”. La lavorazione chiaramente senza tornio, eseguita interamente a coltello, delle campane della zampogna cerquetana e la crudezza dei fusi “dall’aspetto scorzato” ne fanno un modello distinto dagli altri modelli del centro Italia, sicuramente costruito in zona o al massimo  nella Valle Siciliana, di cui faceva parte Cerqueto, in considerazione delle affinità organologiche di alcuni modelli rinvenuti in zona, come ha sostenuto lo studioso Carlo Di Silvestre. Sempre secondo un suo studio, la zampogna, conservata nel Museo di Cerqueto, sarebbe appartenuta alla famiglia Di Saverio, di Cusciano (Montorio al Vomano). La zampogna cerquetana è un tipo di zampogna zoppa. Le zampogne zoppe sono definite tali a causa dell’asimmetria dei due chanter. L’otre della zampogna zoppa è in pelle di pecora o capra. Le canne sono di diversa misura (da cm. 20 a cm. 60), terminanti con una campana cosiddetta aperta. La caratteristica è la mancanza di chiave (metallica) inserita sulla canna sinistra.  L’insufflatore (‘nzufelatorë) comprende le ancie di canna, dette “le prepizië”. Le ancie venivano fatte con le canne raccolte in località costiere, o sull’Adriatico o sul Tirreno,  solitamente nel mese di gennaio, febbraio, e fatte stagionare per un minimo 10, 12 mesi.  Dal blocco o ceppo (lu ceppàlë) fuoriuscivano quattro canne: totërë maschië, a sinistra (la più lunga), totërë femmënë, a destra (seconda in lunghezza);  il bordone, senza buchi , lu “zzonë”; la canna superiore , la più corta, “lu fïschiettë”. La zampogna zoppa è stata diffusa in diverse aree del centro Italia, Abruzzo,  Lazio e Molise, come lo è stata la zampogna a chiave che rappresenta la sua forma più evoluta, perfezionata e modernizzata.  In realtà una zampogna zoppa può trasformarsi in una zampogna a chiave cambiando semplicemente lo chanter di sinistra con uno più lungo e dal suono più grave, dotato di chiave. La chiave è un dispositivo in metallo, che ha lo scopo di aprire e chiudere l’ultimo buco dello chanter sinistro, che contiene la chiave. È utile per coprire l’ultimo buco che il mignolo non arriverebbe mai a coprire a causa della lunghezza della canna.

Accanto alla zampogna zoppa cerquetana con le sue peculiarità, esiste in Abruzzo la zampogna  avezzanese, di Avezzano, (da non confondere con la cornamusa di Vezzano sul Crostolo, un comune  dell’Appennino emiliano-romagnolo in provincia di Reggio Emilia),  composta sempre da un otre in pelle di pecora o capra, con quattro canne di diversa misura, di cui la più corta è stata resa silenziosa, con funzione solo di abbellimento. La parte terminale, detta campana, delle canne di sinistra e di destra presenta un bordo interno che la restringe. Viene denominata “l’avezzanesë” (forma dialettale di Avezzano, dove si costruiva) proprio per questa sua caratteristica. La semi-chiusura della campana avezzanese svolge il ruolo di sordina e abbassa i decibel di tutte le canne sonore rendendo questo modello più idoneo ad essere suonata  in ambienti chiusi. Questo tipo di campana inizialmente è stato usato anche con le zampogne zoppe ma successivamente è stato utilizzato solo con le zampogne a chiave.    Un altro  modello, a campana aperta, è detta campagnola, più adatta ad essere usata durante gli alpeggi, i rituali pastorali, i pellegrinaggi,le  processioni e le feste all’aperto. La campana ha funzione di amplificatore o riduttore del suono e dà alla zampogna il suo caratteristico timbro. Per completare il quadro dei modelli di zampogne esistite in Abruzzo è il caso di citare la zampogna denominata 32, un modello più grande, rinvenuta nella tomba di uno zampognaro di Avezzano.

Nel corso del tempo le zampogne hanno subito  forti modificazioni da parte dei suonatori stessi, sia esteticamente che organologicamente, con la sostituzione delle ance doppie con ance singole e con l’installazione di un otre molto più grande di quelli normalmente in uso nell’ Italia centrale, somigliante,  sia nella forma sia nel conseguente modo di imbracciarlo, agli otri delle zampogne calabresi e siciliane.

A Cerqueto la zampogna è un remoto ricordo, rimpiazzata completamente dall’organetto, ddu bottë, già verso la fine dell’800, sicuramente a causa delle numerose difficoltà che la zampogna presentava per la costruzione, per la preparazione delle ance e soprattutto per l’accordatura. Maria Ruscio, di anni 91, non ricorda la zampogna a Cerqueto, neanche da bambina. Suo padre Luigi, nato nel 1876, le parlava di zampogne legate alle feste e ai canti, ma anche per lui la zampogna era un ricordo del passato, appartenuta alla generazione precedente. Strumento costruito dagli stessi suonatori a immagine dell’animale, pecora o castrato o capra, macellato nel periodo di luna calante perché l’otre fosse più resistente, con i fusi fatti di prugno, sorbo, acero e talvolta anche di faggio. Sarebbe limitativo ridurre la zampogna a strumento di devozione pastorale nelle rappresentazioni del Natale, data la sua centralità secolare nei vari  contesti  sociali di feste agricole e pastorali.

Noti artigiani di zampogne esistono ancora in zona, a Isola del Gran Sasso. In questa foto  (1930) Carmine Fieni, a destra, accompagna al canto la melodia della zampogna zoppa, suonata da Franco Trasatti, detto il capraro, di Isola del Gran sasso (dal libro “Isola del Gran Sasso e la valle Siciliana”di Silvio di Eleonora – Andromeda Editrice, 2003).

Adina Di Cesare  –   Giorgio Brazzoduro

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