L’incenso e la mirra, due piante legate al Natale.

Le piante che per antica tradizione o per consuetudini più recenti sono collegate al periodo natalizio sono molteplici, tra le prime si possono ricordare soprattutto gli abeti ed i ginepri, tra le seconde figurano la Stella di Natale o Poinsettia (Euphorbia pulcherrima), proveniente dal Messico, la Rosa di Natale (Helleborus niger) dei boschi europei e il cactus di Natale (Schlumbergera truncata) delle foreste del Brasile. Queste ultime specie sono state adottate dalla tradizione natalizia per la loro vistosa fioritura, che si verifica in un periodo dell’anno particolarmente povero di fiori appariscenti utilizzabili per la decorazione delle abitazioni. Altre specie assolvono questa funzione in contesti geografici più lontani dal nostro, come l’albero di Natale australiano (Nuytsia floribunda), dalla vistosa fioritura gialla. Bisogna poi ricordare quelle piante considerate benaugurali, più legate all’inizio del nuovo anno, come il vischio (Viscum album), l’agrifoglio (Ilex aquifolium ed altre specie) ed il pungitopo (Ruscus aculeatus). Le rappresentazioni della Natività, come il Presepe Vivente di Cerqueto che abbiamo appena ammirato, riproponendo gli episodi della narrazione evangelica secondo una chiave più autentica e aderente alla realtà degli eventi descritti, ci presentano due e ben diversi rappresentanti del mondo vegetale: l’incenso e la mirra.

Queste, che sono realmente le piante più strettamente legate alla ricorrenza della Natività, spesso rimangono entità quasi sconosciute, avvolte nel mistero di un mondo antico ed esotico. E’ il Vangelo di Matteo (2, 1-11) a riferire che alcuni Magi provenienti dall’oriente, dopo essersi prostrati ed aver adorato il Bambino Gesù, aprirono i loro scrigni ed offrirono un triplice dono: oro, incenso e mirra.  A questi tre doni i Padri della Chiesa hanno attribuito un preciso significato simbolico, l’oro rappresenta, infatti, la regalità di Gesù, l’incenso la sua divinità, la mirra l’umanità ed il sacerdozio. San Leone Magno (390 – 461 d.C.) in un suo sermone afferma in proposito che i Magi offrono l’incenso a Dio, la mirra all’uomo e l’oro al re, venerando consapevolmente l’unione della natura divina e di quella umana, perché Cristo, pur essendo nelle proprietà delle due nature non era diviso nella potenza.  Sulla provenienza geografica dei Magi (magoi in greco) (fig. n.1) nel tempo si è molto discusso, ma sin dal periodo dei Padri della Chiesa tra gli studiosi ha prevalso l’opinione che essi venissero dalla Persia, che si trova ad oriente della Palestina. Presso i Medi e i Persiani, a somiglianza di quanto accadeva in altri popoli di stirpe indoeuropea, esisteva in quel periodo una sorta di casta sacerdotale ereditaria, detta dei Magi, che conduceva un’esistenza particolarmente sobria, presiedeva il culto zoroastriano del fuoco, si occupava di astronomia ed astrologia ed era depositaria della dottrina teorica e rituale.

L’impiego dell’incenso e della mirra si era largamente diffuso nel mondo antico dall’epoca della civiltà egizia, pertanto questi doni, così come l’oro, in quel periodo rivestivano di sicuro un significato dal valore universale. Incenso e mirra non possono quindi certamente rappresentare un carattere identificativo dell’area culturale e geografica di provenienza dei Magi.  Nelle epoche successive le grandi divisioni politiche e culturali che interessarono il Vicino Oriente ruppero quel continuum che si era realizzato prima con l’ellenismo e poi con l’Impero Romano e gradualmente la circolazione delle idee e dei prodotti si ridusse, relegando ad ambiti sempre più ristretti l’impiego di beni che per la loro provenienza remota erano divenuti rari e costosi. In questo modo prodotti come l’incenso e la mirra uscirono del tutto dall’uso consuetudinario in Europa, per rimanere relegati essenzialmente in quei pochi ambiti, come quello della liturgia cristiana, nei quali era preservato in maniera più significativa il legame con il periodo della perduta unità culturale del mondo mediterraneo. Il termine incenso deriva dalla voce latina incensum, che rappresenta il participio passato del verbo incendere “bruciare”.  Nell’uso originario il participio incensum era riferito al sostantivo tus (thus) – genitivo turis, nome originario dell’incenso nella lingua latina.  Il termine tus (thus), che nel tempo ha finito per essere sottointeso, rappresenta a sua volta l’alterazione di uno dei nome greci dell’incenso, θύος (thuos), che deriva dal verbo θύειν (thuein) “offrire un sacrificio d’incenso, sacrificare”. Altri nomi greci per l’incenso erano θυμίαμα (thymiama), con la stessa origine e λίβανος (libanos). Correlati al tema del verbo greco θύειν sono i termini θύμος “spirito” (originariamente fumo), simile al latino fumus, θύμον “timo”, la pianta aromatica mediterranea che forse durante l’antichità era consuetudine bruciare durante i sacrifici, θυΐα “tuja” l’albero mediterraneo dal prezioso legno odoroso. Dal nome latino dell’incenso, tus (thus) – turis, trae origine la parola turibolum ” turibolo o incensiere”, il vaso metallico utilizzato per bruciare l’incenso o altre essenze profumate durante le cerimonie religiose, mentre si definisce si definisce turiferario il ministrante che nella liturgia cattolica ha l’incarico di portare il turibolo. In origine il turibolo presso i romani era detto acerra, termine poi passato ad indicare la cassetta (arca turalis) nel quale si conservava l’incenso, detta oggi, per la sua forma, navicella.  Nel mondo greco antico l’incensiere era detto thymiaterion, da thymiama = incenso. L’uso dei thymiateria durante i riti religiosi, ma anche in occasioni conviviali, fu molto diffuso nell’antica Grecia, ma anche presso gli Etruschi e addirittura i villanoviani, essi assumevano varie forme ed erano realizzati in argilla o in bronzo. Thymiateria rappresenta ancora oggi il nome del turibolo nella liturgia della Chiesa ortodossa.

Nella nostra realtà l’incenso più noto è quello che viene bruciato per uso liturgico, che è costituto principalmente da resine vegetali, tra le quali la più usata è l’olibano, il vero incenso, a cui possono essere aggiunte essenze aromatiche particolari, come la mirra, che è prodotta dalla Commiphora myrrha, il benzoino del Siam, ricavato dalla pianta Styrax benzoides o lo storace, prodotto da Styrax officinalis. Nella liturgia della Chiesa ortodossa vengono spesso utilizzati incensi aromatizzati, che variano a seconda delle festività, mentre è più raro l’impiego dell’olibano puro. Nel mondo antico l’incenso era costituito sostanzialmente da una miscela di resine vegetali e spezie che si bruciava per produrre fumi profumati, gli ingredienti di questa miscela erano però soggetti a notevoli variazioni a seconda delle aree geografiche e delle mode. In origine sia presso i Greci sia presso i Romani si bruciavano soprattutto legni odorosi provenienti da specie locali, come i ginepri, tra i quali in particolare il ginepro turifero (Juniperus thurifera) o la rara tuja occidentale (Tetraclinis articulata), oltre a piante aromatiche spontanee come timo e rosmarino. Gli antichi Egizi avevano impiegato a questo scopo anche il fieno greco (Trigonella foenum-graecum), una leguminosa usata in genere come specie foraggera. Abbastanza presto proprio nel mondo egizio si diffuse l’usanza di bruciare il vero incenso, detto “sntr”, durante le cerimonie religiose. L’affermarsi di questa consuetudine fu una conseguenza dei traffici con le popolazioni penisola arabica che erano le più vicine alle aree di produzione dell’incenso, della mirra e di altre resine fragranti che trovavano impiego anche in campo cosmetico. Per raggiungere direttamente queste regioni vennero organizzate alcune spedizioni militari attraverso il Mar Rosso alla volta della lontana terra di Punt, che corrisponde con molta probabilità ad un’area compresa tra l’Eritrea, Gibuti ed una porzione dell’attuale Somalia (Somaliland, Puntland e Migiurtinia), luoghi dove in tempi successivi furono posti il promontorio degli aromi (forse Capo Guardafui) e la terra dei Trogloditi. Questo territorio tropicale forniva prodotti rari e preziosi come incenso, mirra, gomma, oro, avorio, ebano, animali esotici, etc., che tramite l’Egitto potevano raggiungere anche gli altri paesi del Mediterraneo.   La prima spedizione verso Punt di cui si ha notizia venne organizzata dal faraone Sahurè della V dinastia (2487-2475 a. C.), ne seguirono diverse altre, tra le quali la più famosa fu quella voluta dalla regina Hatschepsut (1508 – 1458 a C.), figlia di Tuthmosi I, della XVIII dinastia, raffigurata nei dipinti del tempio funerario della stessa regina a Deir el-Bahari, presso Luxor. Queste raffigurazioni mostrano, tra l’altro, anche gli alberi che nella terra di Punt producono l’incenso e la mirra ed il trasporto di alcune di queste piante verso l’Egitto per sperimentarne la coltivazione. Effettivamente presso il complesso di Deir el Bahari sono stati ritrovati i resti quasi intatti delle radici degli alberi di incenso che ornavano la facciata, arrivati da Punt con le cinque navi della spedizione. Questi alberi appartenevano ad una delle specie che ancora oggi producono l’incenso propriamente detto, quello  che, come si è visto, viene definito anche olibano o franchincenso. Il primo di questi appellativi deriva, tramite il greco λίβανος, dall’espressione araba al-luban “il latte”, con riferimento al carattere lattiginoso della resina che scaturisce dalla pianta,  mentre il secondo, franchincenso, che proviene dall’antico francese, vuole specificare che questo è  l’incenso vero o franco. L’albero che fornisce questo tipo di incenso nella regione del Corno d’Africa (Somalia e parte dell’Etiopia), attualmente è classificato come Boswellia sacra (fig. n.2), che è la medesima specie utilizzata al di là del Mar Rosso, nello Yemen ed in Oman. Fino a poco tempo fa si riteneva invece che la principale  pianta produttrice di olibano diffusa in Somalia rappresentasse un  diverso taxon, denominato Boswellia carterii Birdw. Il genere Boswellia appartiene alla famiglia delle Burseracee che comprende circa 80 specie di alberi ed arbusti tropicali, spesso diffusi nelle boscaglie aride e nelle zone predesertiche. Tutte le parti di queste piante contengono resine che rivestono soprattutto una funzione difensiva nei confronti degli insetti e degli erbivori. Il contenuto in sostanze resinose risulta particolarmente elevato nelle cortecce, che in varie  specie di questo gruppo vegetale forniscono  resine balsamiche come la mirra (prodotto da Commiphora), l’incenso (da Boswellia), l’elemi (da Bursera), l’olio di linaloe (da Bursera), il copale bianco (da Protium), il copale nero (da Bursera), il copale oro (da Icica), il palosanto (da Bursera).  Le Burseracee sono affini alle Rutacee, famiglia di piante diffusa anche alle latitudini temperate, che include anch’essa molte specie aromatiche, come la ruta (genere Ruta) e gli agrumi (genere Citrus). Il genere Boswellia è stato dedicato a James Boswell (1740-1795), autore della famosa biografia del poeta e letterato inglese Samuel Johnson (1709-1784),  questo genere include 23 specie di alberi diffusi nell’area compresa tra l’Africa tropicale (soprattutto orientale), la penisola arabica meridionale, l’isola di Socotra,  il Madagascar e l’Asia tropicale. Tra essi principalmente otto specie sono utilizzate per la produzione dell’incenso: Boswellia sacra Flueck., Boswellia frereana Birdw. della Somalia settentrionale, Boswellia papyrifera Del. (Hochst.) dell’Etiopia e del Sudan, Boswellia bhau-dajiana Birdw. della Somalia, Boswellia serrata Triana & Planch dell’India, Boswellia rivae Engl. dell’Etiopia, Boswellia neglecta S.Moore dell’Etiopia e Boswellia socotrana Balf. dell’isola di Socotra. La specie storicamente più utilizzata per la produzione dell’incenso è Boswellia sacra Flueck.,  un piccolo albero dotato in genere di più fusti che raggiunge un altezza compresa tra i due ed i nove metri ed è ben  adattato al clima arido tropicale. Possiede caratteristiche foglie composte, lunghe 15-25 cm, imparipennate, formate da 7-10 foglioline opposte, spesso ricoperte da peluria sulle due facce.

Queste foglie, decidue, vengono perse durante la stagione secca allo scopo ridurre la perdita di acqua per evapotraspirazione. I fusti ed i rami appaiono piuttosto spessi a causa della succulenza, che consente di conservare l’acqua nei tessuti interni, i fusti sono ricoperti da una scorza sottile, bruno-pallida, di consistenza papiracea, che si sfalda in larghi lembi con facilità. I fiori (fig. n.3) sono piccoli, profumati, riuniti in racemi semplici, hanno colore bianco-giallastro e sono dotati di cinque petali e dieci stami. I frutti sono capsule deiscenti, lunghe circa un centimetro, che possono contenere fino a tre semi. Boswellia sacra, come si è detto, è diffusa sia in Somalia dove è chiamata “moxor”, sia nella penisola Arabica, in Yemen ed in Oman, paesi situati lungo la cosiddetta “Via dell’incenso” che storicamente sono stati importanti aree di produzione dell’olibano. Oggi alcuni studiosi ritengono che B. sacra sia originaria della Somalia e sia stata successivamente introdotta nell’antica Arabia Felix (Arabia meridionale), forse ai tempi del Regno di Saba, noto fin dall’VIII secolo a C. e situato nell’attuale Yemen, che si estese anche su parte della Somalia e dell’Etiopia.

Nel suo areale di diffusione l’habitat di Boswellia sacra é rappresentato in genere da rilievi litoranei,  più esposti alle correnti umide provenienti dal mare,  a quote che raggiungono i 1200 m s.l.m., spesso su substrato calcareo (fig. n. 4). In queste zone, dove la piovosità  annua può essere inferiore ai 500 mm ed il suolo può avere uno spessore inferiore ai 20 cm, le piante di Boswellia contribuiscono a prevenire i processi di desertificazione.   Le loro foglie, nonostante la presenza di sostanze aromatiche, rappresentano un alimento per gli erbivori selvatici e per il bestiame domestico, mentre i fiori attraggono api ed altri insetti. Boswellia frereana, detta “maido”, “maydi”, “yigaar” o “yegaar”  è la specie che fornisce l’incenso più prezioso, noto come olibano migiurtino, “elemi” africano o incenso copto, perché viene usato nelle cerimonie della Chiesa copta d’Egitto. Questo incenso viene inoltre acquistato dai pellegrini musulmani che si recano in Arabia Saudita, per tale motivo il mercato saudita ne utilizza l’80 % della già ridotta produzione. B. frereana vegeta naturalmente su pendici rocciose aride e scoscese in Migiurtinia ed in aree antistanti dell’Etiopia, per questo il suo sfruttamento per la produzione di incenso risulta particolarmente difficile.  Boswellia

papyrifera è un albero deciduo alto fino a 12 m, che vive in Etiopia, Eritrea, Sudan, Ciad, Uganda e Repubblica centrafricana, ma riveste una particolare importanza ecologica ed economica in Etiopia settentrionale, dove rappresenta un importante componente della copertura vegetale delle zone aride. Questa specie fornisce il cosiddetto incenso dorato o incenso del Sudan, dotato di proprietà paragonabili a quelle dell’olibano prodotto da Boswellia sacra. Negli ultimi tempi B. papyrifera appare comunque sempre più minacciata dal disboscamento, dagli incendi, dal sovrapascolo (overgrazing) e dall’eccessivo sfruttamento delle piante per la produzione della resina. Boswellia serrata delle regioni aride dell’India settentrionale e centrale, dove è chiamata “shallaki”, fornisce una resina, detta “salai guggul”, dalla quale si ottiene un incenso di qualità inferiore chiamato olibano indiano. La resina di questa pianta trova invece utilizzo nella medicina tradizionale indiana (ayurvedica) per le sue proprietà antinfiammatorie ed antibatteriche, che sono state oggetto di sperimentazione anche in epoca recente

L’incenso fornito dagli alberi appartenenti al genere Boswellia è un  oleogommoresina che scaturisce dai vasi resiniferi contenuti nella corteccia, l’incisione della scorza determina la fuoriuscita di un’emulsione biancastra che si essicca all’aria in gocce globulari e piriformi o in cannelli, di una tinta che va dal giallo chiaro al bruno scuro.  Dopo circa un mese l’oleoresina è sufficientemente indurita e può essere raccolta. Il tronco della Boswellia può essere inciso fino ad un massimo di 12 volte in un anno, ad intervalli di 15- 25 giorni; ogni pianta può produrre in un anno da uno a tre chilogrammi di resina. L’epoca di raccolta e la quantità di resina prodotta variano comunque a seconda dei luoghi. In genere l’estrazione avviene durante la stagione asciutta, in Somalia settentrionale  da maggio a settembre, in Etiopia  da settembre a giugno e nel Dhofar, in Oman meridionale, da aprile ad ottobre. La raccolta dell’incenso può essere un’attività molto importante per i contadini e i pastori che vi si dedicano, garantendo loro un reddito anche nel periodo della stagione secca, nella quale è quasi impossibile praticare l’agricoltura. In Etiopia la raccolta dell’incenso coinvolge migliaia di lavoratori stagionali tra i quali il 31% sono donne. Gli uomini tradizionalmente sono dediti all’incisione della pianta ed alla raccolta della resina, le donne, invece, si occupano della selezione e della classificazione. Nel Dhofar si distinguono quattro livelli di qualità di incenso, quello più pregiato proviene da zone asciutte situate in valli montane, quello di minor valore dalle pianure costiere e  dalle vallate esposte alle piogge monsoniche. In questa regione per la raccolta si adopera un comodo utensile spatolato chiamato “mengaf”. Lo sfruttamento eccessivo degli alberi per l’estrazione dell’incenso determina comunque un indebolimento delle piante, che si evidenzia anche con una riduzione del  tasso di germinazione dei semi che producono. Questo nel tempo causa il mancato rinnovamento delle popolazioni di Boswellia e la loro progressiva diminuzione, accentuata dalla maggiore suscettibilità agli attacchi degli insetti parassiti. In alcuni luoghi per evitare l’eccessivo sfruttamento degli alberi l’estrazione della resina viene effettuata solo per tre anni consecutivi, lasciando poi alle piante un periodo di riposo di alcuni anni. Lo storico greco Erodoto (484 – 425 a.C.) nelle Storie riferisce che l’estrema regione meridionale dell’Arabia rappresenta il principale paese al mondo produttore di incenso, mirra, cassia, cinnamomo e ladano, ma accenna anche alla presenza dell’incenso lungo la costa del Mar Rosso, nell’estrema parte meridionale dell’Egitto.   A proposito della raccolta dell’incenso in Arabia,  Erodoto  riferisce  che le piante che producono l’incenso sono sorvegliate da serpenti alati di piccole dimensioni e dai vivaci colori, che si radunano in gran numero intorno a ciascun albero e possono essere allontanati dagli alberi solo con il fumo dello storace, una sostanza esportata in Grecia dai Fenici. Questa notizia, in apparenza fantastica, potrebbe derivare da voci messe in circolazione per giustificare l’alto prezzo dell’incenso o, in alternativa, fare riferimento a qualche specie d’insetto o a piccoli serpenti velenosi arboricoli asiatici appartenenti al genere Boiga, forse introdotti dall’uomo o  scomparsi successivamente a causa della desertificazione. Gli antichi Romani utilizzavano essenzialmente l’incenso prodotto in Arabia, che veniva lavorato ad Alessandria d’Egitto. Secondo Plinio il Vecchio (23 -79 d. C.) la zona che produceva l’incenso nell’Arabia Felix si trovava nei pressi del paese degli Atramiti, una tribù di Sabei, che dovrebbe corrispondere all’odierno Hadhramut nello Yemen, in un’area montagnosa accessibile solo dal mare, identificabile con l’odierno Dhofar, in Oman. Da questa zona, attraverso il territorio dei Minei, l’incenso veniva trasportato sino alla città di Sabota (Shabwa), nella regione degli Atramiti, dove un decimo del raccolto era prelevato dai sacerdoti del tempio del Sole. In seguito l’incenso rimasto a dorso di dromedario veniva trasportato attraverso il paese dei Gebbaniti (Qatabaniti), sempre nell’attuale Yemen, fino alla loro capitale Tomna (Timna’). Da lì, attraverso la dorsale carovaniera che percorrevano l’Arabia occidentale, giungeva alla città di Gaza, sulle rive del Mediterraneo, dopo essere stato sottoposto ad una serie di tasse e di pedaggi che facevano lievitare il costo della qualità migliore di incenso a sei denari, (62 grammi di argento, del valore di circa 48 euro attuali) la libbra (326,68 grammi). Questo  era la “Via dell’incenso” in epoca romana. Sempre Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia riferisce che a Roma erano del tutto ignote le caratteristiche dell’albero che produceva la preziosa resina, anche se i Romani avevano condotto una spedizione militare in Arabia nel tentativo di conquistare i luoghi di produzione dell’incenso e della mirra. Presso i Greci le caratteristiche dell’albero dell’incenso erano ugualmente sconosciute, sebbene all’epoca dei Tolomei se ne fosse tentata la coltivazione in Egitto, in Persia ed a Sardi in Lidia. Ancor Plinio afferma che in pratica tra i Minei non erano più di 3000 le famiglie che si tramandavano in forma ereditaria il privilegio di raccogliere l’incenso. Per questo motivo i membri di quelle famiglie erano considerati sacri e nel periodo dell’incisione e della raccolta evitavano il contatto con le donne e con i defunti, facendo così aumentare il valore religioso della loro merce. Le boscaglie d’incenso di quell’area sarebbero state proprietà comune di alcune famiglie che ne avrebbero usufruito a rotazione di anno in anno. Presso i Romani, così come presso gli altri popoli antichi, l’incenso venne adoperato soprattutto nel culto pubblico e privato e nei sacrifici, fu usato comunque anche come profumo ed impiegato per le fumigazioni degli ambienti  domestici. Nel culto romano l’incenso rappresentava la più importante tra le offerte incruente (libamina) e senza il suo uso i riti sacri non potevano considerarsi completi. Nel culto pubblico veniva bruciato sull’ara con il vino e le interiora delle vittime, mentre nel culto domestico quotidianamente se ne faceva offerta ai lares familiares. M. P. Catone (234 – 149 a C.),ad esempio, nel De agri cultura raccomandava di offrire incenso con vino come rito propiziatorio prima della mietitura.  Ancora  Plinio il Vecchio narra invece che l’imperatore Nerone durante i funerali della moglie Poppea  consumò un quantitativo d’incenso corrispondente alla produzione di un anno.

Presso i Greci come presso i Romani l’incenso era usato largamente durante i sacrifici, lo si bruciava negli incensieri e se ne riempivano le vittime negli olocausti per renderle più gradite alle divinità. Era utilizzato in particolare in alcuni culti misterici, ad esempio nei misteri orfici. L’incenso, proveniente da un paese desertico tropicale, era considerato una pianta solare, i cui fumi salivano verso il cielo sede del Sole e della divinità, sprigionando fragranze ultraterrene.   Secondo un mito greco riportato da Ovidio la pianta dell’incenso sarebbe nata dal corpo della fanciulla Leucotoe, amata dal Sole, e per questo sepolta viva dal padre. Alessandro Magno fu il primo sovrano del mondo greco in onore del quale, secondo l’uso orientale, venne bruciato incenso. In seguito, in età ellenistica, questa consuetudine si diffuse, pur rimanendo sostanzialmente limitata alle aree asiatiche di cultura greca. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia e Plutarco (46 – 127 d. C.) nelle Vite Parallele narrano che Alessandro Magno, dopo la conquista di Gaza, che, come si è visto, era lo snodo finale sul Mediterraneo della “Via dell’incenso”,   inviò al suo precettore Leonida 500 talenti di incenso (2600 chili), memore dell’augurio di poter conquistare un giorno il paese dell’incenso per non usarlo più con parsimonia durante sacrifici, che questi gli aveva fatto durante la sua infanzia. Presso i Greci, come presso altri popoli antichi, l’incenso rientrava infatti tra i doni preziosi che venivano fatti ai personaggi importanti. Quest’uso si ritrova nella Bibbia, dove, nel libro delle Cronache, si riferisce che la regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne a Gerusalemme, arrivando con un corteo molto numeroso e con cammelli carichi di incenso, di oro e di pietre preziose. La regina di Saba proveniva, infatti, dall’attuale Yemen, luogo di produzione dell’incenso e di altri aromi. Nella Bibbia l’incenso fa parte del “ketoreth” o “timiati”, l’incenso consacrato, una miscela di aromi, detta anche “haketoreth”, che era offerta  sullo specifico altare dell’incenso allorché venne realizzato il tabernacolo nel primo e nel secondo tempio, a Gerusalemme. L’offerta del “ketoreth” era una delle principali componenti del culto nel tempio. Nel libro dell’Esodo (30: 34) sono espresse le indicazioni riguardanti la costruzione dell’altare mobile dell’incenso, che sarà posto davanti al velo che nasconde l’Arca della Testimonianza. L’altare deve essere di legno di acacia e ricoperto di oro, su di esso due volte al giorno sarà bruciato un incenso (ketoreth) composto da una miscela di storace, onice (forse ladano), galbano (resina di Ferula galbanifula) ed olibano puro, che in ebraico è indicato con la parola “lebonah”.  Nel Salmo 141 (140):2  è scritto: ” Come incenso salga a te la mia preghiera / le mie mani alzate come sacrificio della sera”. Nel Vangelo di Luca (1,5-23) si racconta che mentre  il sacerdote Zaccaria officiava a Gerusalemme gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso ed alla destra dell’altare dell’incenso gli apparve l’arcangelo Gabriele che gli annunziò la nascita del figlio Giovanni.  Anche nell’Apocalisse (8:3-4) si parla di un angelo che regge un incensiere d’oro nel quale bruciano aromi che salgono davanti a Dio con le preghiere dei santi. Nel culto cristiano non si ha notizia dell’uso dell’incenso fino al IV secolo, successivamente venne utilizzato soprattutto nei riti esequiali, per entrare poi anche nella liturgia pubblica. Intorno al Mille l’uso dell’incenso nella liturgia cattolica appare fissato  ed identico all’utilizzo attuale. L’incensazione durante la liturgia non ha solo il significato di venerazione o adorazione, ma anche di purificazione, per questo vengono incensati anche il celebrante, il ministro ed i  fedeli. Attualmente l’olibano più utilizzato  per uso liturgico è quello detto greco, importato dalla Grecia, in particolare il più pregiato è quello proveniente dai monasteri dal Monte Athos. Fino a poco tempo fa la maggior parte dell’incenso che arrivava in Europa proveniva dalla costa settentrionale della Somalia da dove affluiva nei mercati di Aden, Gibuti e Mumbai. Oggi i siti di produzione appaiono più diversificati grazie alle produzioni dell’India, dell’Etiopia e di altri stati africani che vengono esportate anche direttamente in Europa. L’incenso si trova in commercio in grani o in lacrime (fig. n. 5), queste hanno aspetto globulare, piriforme o allungato (a stalattite), e sono formate dalla resina essiccata sui tronchi all’aria ed al sole. L’incenso di qualità più elevata solitamente è quello quasi incolore o tendente al verdognolo, quello più scadente assume un colore che va dal giallastro al bruno e può trattenere molti resti di scorza bruna. I grani più piccoli tendono ad essere meno opachi di quelli più grandi. Il sapore dell’incenso è amarognolo, sebbene nel mondo arabo spesso venga masticato, l’odore a freddo è solo leggermente aromatico. Solamente quando viene riscaldato emette i fumi dal caratteristico odore aromatico. Se viene a contatto con acqua fredda tende a riformare l’emulsione lattiginosa che scaturisce dalle incisioni delle cortecce, ma è solo parzialmente solubile in acqua, così come in etanolo o in etere.

Il primo studio sulla composizione chimica dell’olibano venne effettuato nel 1788 da J.E. Baer dell’università di Erlangen, nel 1838 si scopri la presenza nell’incenso dell’acido α-boswellico, un acido triterpenico e successivamente anche l’acido 3-acetil-β-boswellico. L’incenso è costituito per il 56 % da una resina acida e per il 30 % circa da una gomma simile alla gomma arabica. La resina contiene vari terpeni e terpenoidi spesso aromatici, la cui abbondanza varia a seconda della specie di Boswellia ed anche delle aree di provenienza delle singole specie.  Tra i terpeni si possono ricordare l’α-pinene, il β-pinene, il limonene, l’α-fellandrene, il camfene, l’α-terpinene, il mircene.  Vi sono inoltre vari costituenti sesquiterpenici, tra cui il β-elemene, l’α-copaene ed il β-cadinene.

Per quanto concerne i terpenoidi si hanno l’incensolo ed il linalolo che sono alcool terpenici e soprattutto  gli acidi boswellici (acidi pentaciclici triterpenici), come l’ acido α-boswellico, l’ acido acetil β-boswellico, l’acido cheto-β-boswellico e l’ acido acetil-11-cheto β-boswellico.
Molti di questi composti sono responsabili dell’aroma dell’incenso, che a causa della loro differente percentuale è soggetto a variazioni in relazione alle diverse provenienze ed alle condizioni ambientali che in esse si registrano. Nelle zone aride gli elevati quantitativi di terpeni e terpenoidi rendono meno appetibile la pianta nei confronti degli insetti fitofagi, mentre l’abbondante resina aromatica, insieme alla corteccia costantemente rinnovata, protegge i fusti, nei quali la Boswellia immagazzina l’acqua, così come fanno altri singolari vegetali pachicauli di quell’area geografica, tra i quali gli alberi bottiglia (Adansonia spp.) ed il sangue di drago (Dracaena cinnabari).  Anche per l’olfatto umano l’odore a freddo dell’ incenso può risultare poco gradevole. La presenza di questi particolari componenti chimici spiega l’impiego che tradizionalmente i vari tipi d’incenso hanno avuto in campo farmaceutico  nella penisola arabica, in Africa orientale e soprattutto in India, dove sono stati utilizzati a scopo terapeutico nei confronti di varie patologie umane e degli animali domestici. Anche in occidente fin dall’antichità l’incenso è entrato nella composizione di preparati farmaceutici, tra i quali per i tempi più recenti è possibile ricordare il balsamo Fioravanti.

I principali composti attivi in campo farmacologico presenti nell’incenso sono gli acidi boswellici, in particolare gli  acidi β-boswellici, rappresentati soprattutto nella resina di Boswellia serrata.  Questi terpenoidi sono dotati di  proprietà antinfiammatorie, antireumatiche ed antidolorifiche che derivano dall’azione inibente  nei confronti  di alcuni enzimi come la 5-lipossigenasi,   questa si traduce nel blocco della sintesi di  alcuni leucotrieni, composti che rivestono il ruolo di mediatori chimici propri dei processi infiammatori sia acuti sia cronici. Questa azione  determina una diminuzione della risposta infiammatoria tipica delle reazioni immunologiche ed allergiche.

L’estratto di B. serrata può essere quindi considerato un rimedio naturale per il trattamento di stati infiammatori cronici, come l’artrite reumatoide, l’osteoartrite, alcuni tipi di colite, l’asma bronchiale, etc. A differenza di altri farmaci usati in questi casi gli acidi boswellici sono privi di effetti collaterali gastrolesivi. Recenti indagini hanno messo in luce  che l’aroma dell’incenso aiuta il rilassamento e scongiura lo stato depressivo. In particolare la molecola dell’incensolo acetato, estratta dalla resina della Boswellia, agirebbe sui circuiti nervosi del cervello tenendo sotto controllo l’ansia. Per questo in aromaterapia  vengono attribuite all’incenso proprietà rilassanti che riguardano la mente ed  il corpo, oltre a quelle  antisettiche, astringenti e antinfiammatorie

La mirra come l’incenso è un’oleogommoresina prodotta dall’arbusto Commiphora myrrha (Nees) Engl. (fig. n. 6) che è diffuso in Africa orientale (Somalia, Etiopia, Sudan, Kenia) e nella vicina penisola arabica. Il genere Commiphora, la cui denominazione deriva dal termine greco κόμμι (gomma) e significa produttrice di gomma, appartiene, come il genere Boswellia, alla famiglia della Burseracee e comprende 185 specie di alberi ed arbusti diffusi in Africa, Medio Oriente, penisola arabica, Madagascar e subcontinente indiano. A questo genere,  oltre a Commiphora myrrha, appartengono Commiphora habessinica, dell’Africa orientale e dell’Arabia, e Commiphora schimperi, dell’ Africa meridionale,, ugualmente produttrici di mirra. Commiphora gileadensis produce il balsamo di Gilead, C. wightii detta “gugul”o “guggal”, diffusa in Africa,  Medio Oriente ed India, fornisce la resina detta mirra”mukul” o anticamente bdellio, usata in India dalla medicina ajurvedica, C. kataf dell’Africa orientale e dello Yemen, produce la mirra detta “bisabol”, C. guidotti della Somalia trasuda la mirra dolce detta “opoponax” o “habak hadi”, C.stocksiana del Pakistan produce il “baysal guggal”, C. wildi della Namibia dà la resina profumata detta “omunbiri”.

La principale specie produttrice di mirra, Commiphora myrrha (Nees) Engl.,  è un arbusto o un piccolo albero alto fino a 5 m, dotato di tronco ingrossato, dal quale si dipartono rami spinosi e nodosi, dalla disposizione irregolare. La pianta in tutti i suoi aspetti appare fortemente adattata agli ambienti aridi. Il fusto è poco compatto, poiché la pianta, pachicaule, in esso accumula acqua. La corteccia è liscia, bruno-verdastra, poiché svolge la fotosintesi clorofilliana, lo strato superficiale, cartaceo tende a sfaldarsi in frammenti che prima hanno colore bruno chiaro e poi grigio o biancastro. Nel complesso, come afferma Plinio il Vecchio, questa particolare corteccia può ricordare quella del corbezzolo greco o andracne.  Il fusto, anche in assenza di incisioni, produce un essudato profumato resinoso Le foglie, caduche, sono semplici, talvolta riunite in gruppi di tre, nel qual caso la foglia centrale è molto più grande delle altre due. Esse hanno consistenza cartacea e colore glauco. La specie, come le altre Commiphora, è dioica ed i fiori, riuniti in piccoli gruppi, sono di modeste dimensioni (3-4 mm) e poco appariscenti. Il frutto è lungo circa 7 mm, ovale, con estremità appuntita. Commiphora myrrha è una specie molto variabile morfologicamente, il cui aspetto varia a seconda delle caratteristiche dell’habitat che la ospita. Vive in zone rocciose, soprattutto calcaree, a quote comprese tra i 250 ed 1300 m, in aree caratterizzate da livelli di precipitazioni che vanno dai 230 ai 300 mm annui. La pianta si presta alla coltivazione, anche come specie succulenta ornamentale, tuttavia non tollera gli eccessi di umidità ed i geli. La resina aromatica  prodotta da questa pianta e da altre specie congeneri riveste una funzione protettiva nei confronti degli insetti e dei vertebrati erbivori. In Somalia ed in Etiopia la mirra viene estratta da più specie di Commiphora, ma solitamente quella prodotta in Arabia meridionale viene ritenuta di qualità migliore. La vera mirra in commercio è detta anche “heerabol”o “karam” mentre quella detta “bisabol” o “bissa bol” ha qualità inferiore ed usi differenti. La mirra grezza consiste in granuli o lacrime di forma e dimensioni irregolari rivestiti da una polvere giallastra aromatica. Il colore dei granuli può variare dal giallo scuro al bruno-rossastro, possiede un aroma balsamico intenso ed un sapore marcato, aromatico ed amaro. La mirra è solo parzialmente solubile nell’acqua,  se sottoposta ad estrazione con alcool lascia un resinoide semisolido molto aromatico che rappresenta un importante fissatore per i profumi, in quanto riduce il tasso di evaporazione dei componenti più volatili di una miscela di essenze profumate. La composizione della mirra vede una prevalenza di gomme, che rappresentano il 30 – 40 % del peso totale, tra le altre frazioni assumono rilievo gli oli essenziali (10 %) e le resine (fino al 6 %). Fra i componenti chimici degli oli essenziali vi sono terpeni come limonene e d-pinene, terpenoidi come elemolo, eugenolo ed m-cresolo, sesquiterpeni come herabolene,  cadinene, lindestrene, curzerene, germacrene B. La resina contiene soprattutto acido α, β, e γ metilglucuronico. Il contenuto in sesquiterpeni e terpenoidi conferisce  alla mirra le proprietà antisettiche, antimicrobiche, vermifughe ed insetticide note fin dall’antichità.  La sostanza è dotata inoltre di proprietà astringenti, antinfiammatorie, cicatrizzanti, analgesiche ed antalgiche. Stimola inoltre l’attività gastrica ed in passato è entrata nella composizioni di vari amari eupeptici, oltre che di preparati farmacologici tradizionali come il balsamo Fioravanti e la tintura di mirra.   La mirra, come l’incenso fu molto utilizzata dagli antichi Egizi  che organizzavano, come si è visto, spedizioni vero la terra di Punt per procurarsela direttamente. Essa era chiamata “bal” e rappresentava uno dei componenti principali del “kyphi” una miscela di aromi usata in vari contesti cerimoniali. Secondo Plutarco i sacerdoti egizi bruciavano incenso la mattina, mirra a mezzogiorno e  kyphi al crepuscolo. La mirra era infatti bruciata come l’incenso, ma in occasioni differenti. Nell’antico Egitto la mirra per le sue proprietà antisettiche rappresentava uno dei principali prodotti utilizzati  per le imbalsamazioni.  La mirra  veniva impiegata anche a scopo medicinale, come antidoto contro il morso dei serpenti e le punture degli scorpioni, nonché come insetticida per allontanare le pulci. Il nome egizio della mirra “bal”, da cui forse deriva il greco “balsamon”, ricorda quello sanscrito ed hindi “bol”, che si ritrova in nomi moderni come “bisabol”. La parola mirra, probabilmente, deriva invece dalla voce semita “mur” o “murr”, con il significato di amaro. La diffusione di questa voce si deve ai traffici dei popoli della penisola arabica, Sabei in particolare,  che per lungo tempo si assicurarono il controllo delle aree di produzione situate sia nello Yemen

sia nelle regioni costiere dell’Africa orientale. La rotta attraverso cui la mirra giungeva sulle rive del Mediterraneo  era la stessa seguita dall’incenso e rappresentò per secoli una cospicua fonte di reddito per Minei, Sabei e Nabatei.

Quando le invasioni barbariche e l’affermarsi del Cristianesimoridussero sensibilmente la richiesta di mirra e di incenso nell’area mediterranea questi popoli subirono pesanti conseguenze economiche e molti importanti centri  urbani situati lungo la direttrice dell’incenso, come Petra nell’attuale Giordania, decaddero rapidamente e furono inghiottiti dai deserti. Presso i Greci  la mirra era detta μύρρα, ma esisteva anche il termine simile μύρον (myron) con il significato di  mirra, olio odoroso, unguento. Un sostantivi affine era μυῤῥίνη (mirrine), che indicava il mirto, un arbusto odoroso mediterraneo, detto anche μίρτος. Forse i Greci conobbero la mirra già nel secondo millennio avanti Cristo, se è valida l’interpretazione che l’ ideogramma MU della scrittura lineare B trovato a Cnosso in alcune che illustrano la preparazione di un unguento, indichi proprio la mirra. Nel mondo greco la mirra venne usata insieme ad altri aromi per scopi rituali, ma trovò anche un largo impiego come unguento e come profumo. Sotto questa forma in particolare era utilizzata dagli sposi in occasione  delle cerimonie nuziali. Per le sue qualità astringenti, antisettiche ed analgesiche la mirra trovava impiego anche in campo farmacologico,   Ippocrate di Coo (460-377 a. C) raccomandava infatti di usarla come balsamo per le ferite. Secondo un mito greco Mirra era una principessa della Siria, madre di Adone, che fu trasformata nell’omonima pianta. Anche presso i Romani la mirra fu soprattutto un ingrediente di profumi e di balsami, ma era impiegata anche in campo fitoterapico. Secondo Plinio il Vecchio le piante che producevano mirra avevano un areale di diffusione più esteso di quello dell’incenso ed erano anche oggetto di coltivazione. Ne esistevano diverse qualità  che avevano aroma, colore e prezzo diversi. La mirra di qualità di migliore era quella più chiara e  molto aromatica, quella di minor valore aveva colore scuro. La più apprezzata era quella prodotta dai tronchi spontaneamente, senza incisioni, detta stactè, che raggiungeva anche il prezzo di 50 denari per libbra. Dal punto di vista delle provenienze  quella di maggior pregio era prodotta dagli arbusti selvatici nel paese dei Trogloditi, che dovrebbe corrispondere all’attuale Somalia, ma anche quella estratta dalle piante coltivate era apprezzata e raggiungeva il prezzo di 11 denari per libbra.  La mirra di qualità inferiore era quella proveniente dall’India. Sempre secondo Plinio per ottenere la mirra gli alberi di Commiphora erano incisi due volte durante l’anno, negli stessi periodi nei quali lo si faceva per gli alberi di incenso, ma le incisioni riguardavano solo la porzione basale dei tronchi. Nella Bibbia la mirra (in ebraico “lot”) è citata più volte, nell’Esodo (30, 22 -25) essa è indicata come uno dei componenti dell’olio dell’unzione che è costituito da:”mirra vergine per il peso di cinquecento sicli, cinnamomo odorifero duecentocinquanta sicli, canna odorifera duecentocinquanta, cassia cinquecento sicli e un hin di olio di oliva”. Nel Cantico dei cantici (5:1) viene così ricordata per il suo aroma: “Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo”. L’uso di unguenti profumati contenenti mirra fu molto diffuso tra gli Ebrei, come testimoniano vari reperti archeologici, ma essa era utilizzata anche imbalsamare i defunti come testimonia il Vangelo di Giovanni (19,39-40) riferendosi a Giuseppe d’Arimatea ed a Nicodemo : “portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei”. Presso gli Ebrei era in uso anche il vino mirrato, che a causa del suo potere inebriante ed analgesico  veniva somministrato per motivi umanitari ai condannati ai supplizi ed alla pena capitale, infatti si legge nei Proverbi (31,6):”dare bevande inebrianti a chi sta per perire”. Del vino mirrato venne offerto anche a Gesù prima della crocifissione dai soldati (Marco 15,23):” e gli offrirono del vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese”.

Nel complesso gli impieghi della mirra nelle varie tradizioni appaiono molto più legati all’orizzonte profano rispetto a quelli dell’incenso. L’uso di questo balsamo poteva accompagnare l’esistenza dell’uomo in tutta la varietà dei suoi aspetti, dai momenti più lieti a quelli più duri, da quelli iniziali a quelli conclusivi.  Per questo i padri della Chiesa hanno visto nel dono della mirra fatto dai Magi il simbolo dell’ umanità e della natura mortale dell’uomo, ma anche della capacità di lenire i mali dovuti ai limiti della natura umana.

Nicola Olivieri

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