Ogni parola rappresenta per noi una ricchezza, ha una sua storia che si intreccia con altre parole e inevitabilmente con altre storie . E il lungo viaggio che le parole hanno affrontato, nello spazio e nel tempo, anche spostandosi da una lingua all’altra, da una comunità all’altra, prima di arrivare fino a noi, merita sicuramente rispetto e approfondimento. Il rispetto, privo di qualsiasi pregiudizio, aiuta certamente la conoscenza e la conoscenza a sua volta alimenta il rispetto per tutto quello che è la nostra storia.
Ci sono delle parole, parte del nostro lessico dialettale , che sono apparentemente senza importanza ma che, ad una attenta e approfondita analisi, ci riportano molto lontano nel tempo. Ripercorrere l’uso di queste parole, il loro tragitto, significa in un certo qual modo ricostruire la nostra storia e magari ricostruire le idee e i contesti culturali che hanno prodotte determinate parole.
Il termine valichirë è usato in Abruzzo per indicare un semplice strumento musicale della classe degli idiofoni, strumenti che producono il suono per il tramite della materia di cui sono costituiti. La valichirë, chiamata a Cerqueto tirëtappë 1, insieme ad altri strumenti altrettanto semplici come li crëllirë e li cartellë, (raganelle e tabelle), sostituiva con il proprio suono le campane nell’annunciare l’inizio delle celebrazioni liturgiche e nel sottolinearne particolari momenti durante la settimana santa. A Cerqueto li valichirë, anche se sotto altro nome, si suonavano principalmente due giorni l’anno, per l’appunto il venerdì e il sabato santo in occasione delle campane legate in segno di rispetto. Ce le ricordiamo tutti benissimo i ragazzi che, in gruppo, muniti dei loro strumenti, quasi sempre realizzati dai genitori, attraversavano le principali vie del paese al grido di “Suona la prima volta la funzione” …..e dopo 7-8 minuti “Suona per la seconda volta la funzione” … e poi ancora “Suona per l’ultima volta la funzione” facendo in modo che, in completa sintonia, tutti i paesani si avviassero verso la chiesa per partecipare ai riti sacri.
Lo strumento valichirë consisteva in una tavola rettangolare di legno sulla quale venivano disposte longitudinalmente due strisce di legno sottile; un’estremità di queste lamelle veniva inchiodata mentre all’altro capo erano fissati dei martelletti di legno mobili. A loro volta i martelletti toccavano quattro alette ortogonali imperniate su di un asse girevole mosso da una manovella. L’effetto sonoro dipendeva quindi dall’azione combinata delle quattro alette che sollevavano alternativamente i martelletti facendoli ricadere e battere sulla tavola. Le scelta del materiale non era determinante e, come per molti strumenti popolari, si utilizzavano i materiali di più facile reperibilità.
Il termine valichirë del dialetto abruzzese deriva proprio dal battere continuo dei due martelletti e, con le inevitabili variazioni e aggiustamenti linguistici lungo il suo viaggio, ci conduce fino alla gualchiera della civiltà pre-industriale, più semplicemente detta valchiera. La gualchiera era macchinario molto diffuso in Abruzzo per la lavorazione della lana, in cui la lana veniva sottoposta alla continua battitura dei magli. La fibre della lana, imbevute di soluzioni a base di sapone, con la battitura divenivano più molli per essere più facilmente compattati e resi perciò più resistenti. Quasi sicuramente il termine gualchiera è di origine longobarda –walkan- e indica un’azione di spostamento da un posto all’altro, da cui derivano anche i termini italiani valicare, valico.
L’uso di follare la lana era attestato già in epoca romana, in appositi laboratori chiamati appunto fullonicae ma molto probabilmente ai longobardi è dovuta la diffusione della gualchiera, che indicò col tempo non solo la macchina ma anche l’edificio in cui si lavorava la lana. Le gualchiere erano azionate dall’energia idraulica, come accadeva per i mulini utilizzati per la macinazione dei cereali, e, per questo, anche gli opifici tessili sorgevano presso sorgenti d’acqua e non lontano da luoghi in cui si produceva la lana. Pertanto, anche l’opificio tessile era dotato di una ruota, quasi sempre verticale, verso la quale veniva indirizzato il getto di acqua corrente proveniente da una derivazione che prelevava parte del flusso idrico direttamente dal corso d’acqua. La ruota, collegata ad un albero, consentiva il movimento alternato dei magli, in genere due. I magli erano dei pestelli di legno che gualcavano, cioè battevano e ammorbidivano i panni di lana tenuti in ammollo nelle pile e costantemente bagnati con acqua calda.
Si tratta, dunque, di un meccanismo semplice che si diffuse in Italia a partitre dall’XI-XII sec. Dopo un massimo sviluppo in epoca medioevale, le gualchiere andarono man mano scomparendo nei secoli successivi. Ne rimangono attestazioni tuttavia fino al XIX e in alcuni posti anche all’inizio del XX secolo. In questo ultimo periodo venivano utilizzate soprattutto per la lavorazione domestica di panni. A Pietracamela la gente del posto sicuramente sapeva sfruttare l’abbondanza d’acqua disponibile per rendere più resistenti i loro panni, esclusivamente di lana. Sono esistite infatti, nelle vicinanze del paese tre gualchiere. I resti del mulino, annesso alla più recente delle tre, sono ancora riconoscibili nella località Capo le Vene, al di sotto dell’area faunistica del Camoscio d’Abruzzo, in una radura presso il torrente Rio Arno, lungo la mulattiera che da Pietracamela porta a Intermesoli. Questa gualchiera doveva essere attiva ancora nella seconda metà dell’800 mentre il mulino ha continuato la sua attività fino alla metà del 900.2 Di tutta la struttura dell’opificio restano intatti i due canali di restituzione delle acque e ci dimostrano quanto il mulino fosse stato produttivo. Un reperto prezioso in quanto, in questa zona, è probabilmente l’ultimo del suo genere che suscita rispetto e meraviglia e sottolinea la sintonia tra uomo e natura dei secoli passati. Non lontano, più a valle, si trovavano altre due gualchiere, sicuramente molto più antiche. Nessuna delle tre gualchiere di Pietracamela risulta in attività, come lo erano le altre 26 della provincia di Teramo. Negli Annali di Statistica de 1895 così si legge: “Trovansi nella provincia 26 gualchiere le quali occupano complessivamente 47 operai; esse sono tutte a forza motrice idraulica, avendo in complesso 21 motori della forza di 114 cavalli. Sono divise in 21 comuni”.3
Proseguendo il percorso del termine valichirë si evidenzia la parola ad essa strettamente connessa, valëcatë, participio del verbo valëcà, in uso ancora adesso a Cerqueto per indicare un indumento di lana infeltrito, ristretto. E a sottolineare il significato di percuotere e battere ripetutamente il termine valëcatë si riferisce anche a vere e proprie percosse fisiche. L’espressione “Mò të la dënghë nà valëcatë” (Adesso ti riempio di botte!) non è molto piacevole ma rende bene il senso del termine.
E la stessa origine potrebbe avere il termine gualdrappë usato fino a qualche decennio fa a Cerqueto in senso dispregiativo per indicare un cencio indossato brutto e senza alcuna forma, in genere di lana, lavorata molto grossolanamente. Potrebbe essere diversa l’origine del termine gualdrappë cerquetano, quindi, rispetto al ben noto termine italiano gualdrappa che indica una coperta usata come ornamento per i cavalli scelta dal cavaliere, di ben diversa etimologia – l’etimo suggerito dagli studiosi, sebbene incerto, dovrebbe essere wahl (scegliere) e drapp (drappo). Oppure il termine cerquetano potrebbe essere stato semplicemente importato adattandone il significato al contesto culturale. Ma è il destino delle parole, nell’ampia e intricata rete dei loro percorsi e della storia, quello di somigliarsi, incontrarsi e spesso confondersi!
Adina Di Cesare
3 Annali di Statistica a cura della Direzione Generale della Statistica – Ministero dell’Agricoltura, Industria e commercio -Statistica industriale Fascicolo LIV- Notizie sulle condizioni industriale delle provincie di Aquila, Chieti e Teramo, pubblicato nel 1895 a Roma presso la Tipografia nazionale di G. Bertero Via Umbria , 78, pag. 135