Considerazioni sull’eventuale presenza, in passato, del gallo cedrone sul Gran Sasso

Fig. n.1 Maschio e femmina di gallo cedrone (Tetrao urogallus)La conoscenza che abbiamo dell’ambiente che circonda, anche quello più familiare, molto spesso rimane parziale e suscettibile di importanti affinamenti. La natura, nella sua complessità, può riservare sorprese persino nei contesti più scontati, laddove la plasticità e le capacità di adattamento degli esseri viventi si manifestano attraverso la resistenza nei confronti dei fattori di stress e lo sviluppo di processi di colonizzazione di nuovi habitat.  Può così accadere che l’osservazione attenta di ambienti apparentemente banali, come quelli delle nostre colline adriatiche, così fortemente antropizzate, possa mettere in luce aspetti inattesi e sorprendenti come, limitandosi solo al campo faunistico, la presenza di specie inconsuete come il capriolo (Capreolus capreolus), l’istrice (Hystrix cristata), il gruccione (Merops apiaster) o la garzetta (Egretta garzetta). Questi organismi, spesso grandi ed appariscenti, negli ultimi tempi sono riusciti a ritagliarsi degli spazi anche in ecosistemi semplificati e degradati, come quelli che circondano i nostri centri urbani minori della fascia collinare, senza tuttavia destare troppo l’attenzione anche di quanti risiedono in quelle zone. La conoscenza delle svariate componenti degli ecosistemi spesso diviene ancora più imprecisa ed approssimativa, a meno che non si intervenga con studi scientifici rigorosi e mirati, quando ha per oggetto ambienti impervi e difficilmente accessibili come quelli montani, dove le specie animali e vegetali possono sfuggire, anche per lunghi periodi, all’osservazione tanto degli studiosi che della popolazione locale.  Molteplici recenti scoperte di organismi animali e vegetali del tutto inattesi effettuate lungo la catena appenninica, anche in aree a noi prossime, stanno a testimoniare l’incompletezza del nostro grado di conoscenza della natura di questo sistema montuoso, nonostante la vicinanza dei rilievi a grandi centri urbani di antica origine. Basti ricordare, ad esempio, i casi certamente rilevanti del picchio nero (Dryocopus martius) scoperto nell’abetina di Rosello, in provincia di Chieti, della rana temporaria (Rana temporaria) e del tritone alpestre (Ichthyosaura alpestris) trovati sui Monti della Laga, della scarpetta di Venere (Cypripedium calceolus) sulla Maiella, dell’adonide gialla (Adonis vernalis) nell’aquilano o del driomio (Dryomys nitedula) sul Monte Pollino. Il grado di conoscenza della fisionomia della fauna e della flora appenniniche diviene poi assolutamente parziale ed inadeguato se ci si volge al passato, sia per quanto concerne l’epoca storica, anche relativamente recente, sia in generale per l’intero periodo postglaciale.  Tale stato di cose rappresenta il retaggio di una ridotta attenzione nei confronti mondo naturale che si può far risalire all’epoca romana e che è poi proseguita durante tutto il Medioevo, traducendosi in un’assoluta scarsità di osservazioni, indagini e documenti scritti, motivata anche dalla difficile accessibilità di molte aree montane appenniniche nel corso dei secoli.  Tale difficoltosa accessibilità ha rappresentato la salvezza per alcuni importanti ecosistemi, come quello della Camosciara, nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, che riflette una condizione abbastanza vicina a quella originaria, preservatasi fortunosamente fino ad oggi.  In altri casi l’impraticabilità dei luoghi ha precluso quasi totalmente la conoscenza della fisionomia faunistica e floristica di importanti ambienti, prima che in tempi abbastanza recenti prevalessero le modificazioni antropiche con le loro conseguenze di inesorabile degrado. Ora dalle brume di questo passato selvaggio e misconosciuto delle nostre montagne, sembra emergere, del tutto inatteso, un protagonista della vita delle antiche foreste europee: il gallo cedrone (Tetrao urogallus), il grande urogallo, che nel nome sembra evocare quelle selve primigenie, definite urwald dagli autori tedeschi, ambienti nei quali era possibile l’incontro con l’uro (Bos taurus primigenius), l’imponente bovino selvatico europeo, estintosi nel 1627.  Nel numero di gennaio 2015 di Cerqueto InForma è apparso, infatti, un articolo di Adina Di Cesare nel quale si riporta come prova della passata presenza del gallo cedrone (Tetrao urogallus) sul Gran Sasso la testimonianza diretta della novantacinquenne signora Rosina Lisii di Cerqueto, che durante la sua infanzia ebbe modo di osservare l’animale nel suo ambiente e ne riferisce in maniera precisa l’aspetto ed il comportamento. Questo’articolo intitolato “Il gallo cedrone, un simbolo del passato” rappresenta, in base ai dati disponibili, la prima documentazione della presenza del gallo cedrone (Tetrao urogallus) (Fig. n.1) in un’area della catena appenninica. Dall’epoca di Plinio il Vecchio, che nel 77 d.C., nella sua Naturalis historia affermò che in Italia sia il gallo cedrone sia il fagiano di monte, altro galliforme strettamente imparentato, vivevano solamente lungo la catena alpina, nessun altro autore nei secoli successivi ha mai citato la presenza dell’urogallo nelle selve appenniniche e sino ad ora concordemente il mondo scientifico ha ammesso la presenza di questo grande Fasianide esclusivamente nelle aree alpine e prealpine del nostro paese. Si potrebbe rintracciare comunque, a questo proposito, qualche citazione che per via indiretta fa forse riferimento a questo animale in contesti dove la specie è assente. Considerato, ad esempio, il fatto che in lingua spagnola il gallo cedrone è detto anche gallo silvestre, una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi, “Il Cantico del gallo silvestre”, potrebbe far riferimento non al canto mattutino di un essere puramente fantastico, ma ad un animale reale, forse noto in passato con l’appellativo di gallo silvestre anche in qualche area italiana, del quale nel periodo in cui scrive Leopardi si era persa la precisa cognizione e che il poeta marchigiano adopera per esporre le proprie considerazioni. La completa assenza nei secoli passati del gallo cedrone dall’Italia peninsulare, a ben riflettere, lascia comunque abbastanza perplessi, perche nelle altre due penisole dell’Europa meridionale, la penisola iberica e la penisola balcanica, l’urogallo è stato abbastanza diffuso in passato ed è presente ancora oggi, anche in aree montuose non particolarmente elevate. Basti pensare che in Spagna Tetrao urogallus attualmente popola, oltre ai Pirenei, anche i Monti Cantabrici, la cui cima più elevata, il Torrecerredo, raggiunge la quota di 2648 m. Nella penisola iberica la specie in passato presentava una distribuzione continua nel territorio interessato da queste due catene montuose, occupando anche zone situate a quote modeste, Fino a circa un secolo fa il gallo cedrone si spingeva anche nel Portogallo settentrionale, nell’area montuosa della Serra do Gerês, dove il Monte Gerês raggiunge appena i 1545 metri di altitudine. Nella penisola balcanica l’urogallo oggi è presente in tutti gli stati, ad eccezione dell’Ungheria, dove la specie è considerata di comparsa irregolare. Nel settore occidentale dei Balcani Tetrao urogallus occupa un’area di distribuzione continua che dalle Alpi orientali, in Slovenia, attraverso i rilievi dinarici arriva fino all’Albania, spingendosi ad una latitudine corrispondente a quella del Salento in Italia. Altre importanti zone di presenza in area balcanica riguardano la regione dei Carpazi ed i Monti Rodopi, fino alla Grecia settentrionale. In pratica nella penisola balcanica il gallo cedrone, sebbene con una distribuzione discontinua, si può rinvenire nelle foreste montane di tutti i principali rilievi. In Grecia, molto di recente, la specie è stata scoperta addirittura in piena zona mediterranea, nei boschi che ricoprono il Monte Athos, alto 2033 m e situato all’estremità della stretta penisola omonima, che si protende nel mare Egeo come ramo della penisola Calcidica. Evidentemente il notevole grado di conservazione del manto forestale nelle zone situate all’interno del territorio della repubblica monastica del Monte Athos, dove dalla fine del VII secolo d. C., quando l’area divenne sede di eremiti, i boschi sono stati soggetti ad uno sfruttamento molto ridotto, ha consentito la sopravvivenza della originaria popolazione di Tetrao urogallus, che oggi rappresenta quella più meridionale dei Balcani e dell’Europa. Sul Monte Athos il gallo cedrone oggi vive nelle formazioni boschive situate ad una quota compresa tra i 1140 ed 1340 m sul livello del mare, ma in passato la specie era diffusa su buona parte dei gruppi montuosi della Grecia settentrionale e centrale. Nel resto del continente europeo il grande urogallo appare oggi essenzialmente relegato alle foreste montane nelle regioni centrali e centro-orientali, mentre la sua diffusione diviene continua nelle vaste foreste  boreali delle regioni più orientali e della penisola scandinava. Al contrario la specie è in evidente declino nell’Europa occidentale, dove l’areale di distribuzione appare oggi decisamente frammentato e limitato a singoli gruppi montuosi. Nelle Isole Britanniche il gallo cedrone, denominato localmente, con termine gaelico, capercaillie, in origine era presente ovunque, ma gradualmente si è estinto a causa della caccia e dei cambiamenti ambientali. L’estinzione è avvenuta dapprima in Inghilterra e successivamente in Galles, alla fine del 1500, poi in Irlanda nel 1760 ed infine in Scozia, dove la specie scomparve tra il 1770 ed il 1775. In seguito, già nel 1837-39, l’urogallo è stato reintrodotto con successo nelle foreste scozzesi, con esemplari di provenienza svedese, tuttavia negli ultimi decenni, per varie cause la popolazione della specie presente in Scozia tende nuovamente a diminuire. Il gallo cedrone è distribuito in Europa con diverse sottospecie ed estende il suo areale anche alla porzione settentrionale del continente asiatico, tuttavia nella Siberia orientale, in Mongolia e nella Cina settentrionale la specie viene sostituita dall’affine gallo cedrone dal becco nero (Tetrao urogalloides), che si distingue per avere delle aree di piumaggio bianco sulle porzioni inferiori del corpo. L’urogallo rappresenta certamente una specie emblematica nell’ambito della fauna delle antiche foreste europee ed assume il ruolo di importante indicatore ecologico della qualità del suo ambiente. Viene considerato, infatti, una “specie bandiera” perché un ambiente adatto alla sua sopravvivenza può ospitare anche molte altre specie animali e vegetali esigenti ma meno note. L’habitat d’elezione del gallo cedrone è riconducibile essenzialmente alle foreste mature costituite da conifere boreali oppure da conifere miste a latifoglie. Sulla Cordigliera Cantabrica, in Spagna, la locale sottospecie Tetrao urogallus cantabricus si è adattata invece ad ambienti forestali costituiti esclusivamente da latifoglie, quali faggio, querce e betulle, dopo la scomparsa delle antiche pinete a pino silvestre che esistevano su quei rilievi. Gli aghi degli abeti e dei pini rappresentano una componente importante della dieta dell’urogallo, soprattutto durante la stagione invernale e nel corso del periodo degli amori, tuttavia in loro assenza sui Monti Cantabrici gli animali si sono adattati ad una dieta invernale basata sulle foglie sempreverdi di agrifoglio (Ilex aquifolium) e su gemme di faggio e di quercia. Durante gli altri periodi l’alimentazione degli esemplari adulti si basa soprattutto su germogli e su molte varietà di bacche e piccoli frutti, come lamponi, more, bacche di biancospino e galbuli di ginepro, tra i frutti prediligono comunque in modo particolare i mirtilli. I piccoli e gli individui giovani si nutrono invece soprattutto di insetti, lombrichi e chiocciole, tra gli insetti preferiscono specialmente i coleotteri, le formiche rosse ed i bruchi. La carenza di formiche e di bruchi nell’ambiente può arrivare in questa specie a condizionare negativamente le possibilità di sopravvivenza dei nuovi nati. Durante la stagione fredda, ma anche negli altri periodi, gli urogalli, soprattutto i maschi, trascorrono lungo tempo sugli alberi, ove si celano alla vista dei predatori stazionando tra i rami, nella parte alta della chioma delle conifere, ove si nutrono degli aghi sempreverdi. In questi periodi gli animali sono silenziosi e molto elusivi, sfuggendo spesso anche all’osservazione dell’uomo. Gli esemplari maschi del gallo cedrone pesano in genere 4-5 kg, ma talvolta possono superare i 6 kg di peso ed in casi eccezionali i 7 kg. Le femmine, che sono molto più piccole e pesano in genere 2,5 – 3 kg, si trattengono più frequentemente al suolo ed hanno per questo una livrea piuttosto criptica, caratterizzata da toni fulvi, neri e bianco-grigiastri. I maschi esibiscono invece un piumaggio di colore grigio ardesia scuro, che tende al marrone scuro sulle ali e sul dorso, mentre il petto è caratterizzato dalla tipica fascia di colorazione verde-bluastra iridescente, dalla quale deriva probabilmente l’appellativo di cedrone. La livrea dei maschi si caratterizza inoltre per l’ampia ed appariscente coda arrotondata di colore nero, ornata di piccole macchie bianche, per il becco biancastro e per la evidente caruncola di colore rosso vivo situata al di sopra l’occhio.  Questa è una caratteristica tipica dei maschi di molte specie di Fasianidi, famiglia di Galliformi alla quale oggi sono ascritti sia il gallo cedrone (Tetrao urogallus), sia gli affini fagiano di monte (Lyrurus tetrix) e francolino di monte (Tetrastes bonasia). Questi uccelli fino a qualche tempo fa erano inclusi nella peculiare famiglia dei Tetraonidi, che di recente è confluita nel più grande gruppo dei Fasianidi. Tra queste specie il gallo cedrone è quella che in territorio italiano appare meno legata alle alte quote, potendo vivere sulle prealpi anche in aree situate a quote prossime ai 1000 m, come accadeva, ad esempio, per l’Altopiano di Asiago, in Veneto, posto ad un’altitudine media di circa 1300, dove l’animale, ora localmente estinto, era molto diffuso in passato.  L’habitat dell’urogallo non è costituito solamente dalla foresta matura, ma deve includere radure dove vegetano mirtilli e ginepri e tratti aperti che fungano da arene di canto o lek per i maschi, che vi si riuniscono, suddividendo l’area in specifici territori, per le loro parate amorose durante la stagione riproduttiva, in primavera. Se le aree forestali vengono private di queste ampie radure a causa di interventi di rimboschimento, i maschi del gallo cedrone perdono i lek nei quali esibirsi per attrarre le femmine e la consistenza numerica della specie tende a diminuire. Dove invece la gestione oculata dei boschi assicura la presenza di ampi lek, adeguati ai cerimoniali di corteggiamento della specie, la densità delle popolazioni di urogallo possono mantenersi elevate. Se il numero di maschi in competizione presenti nei lek diminuisce, questi durante la stagione degli amori possono scaricare le loro aggressività nei confronti di altri animali o dell’uomo, per cui le notizie riportate nella testimonianza della signora Rosina di Cerqueto, riguardanti il comportamento aggressivo del gallo cedrone nei confronti dei bambini corrispondono ad aspetti reali dell’etologia della specie e potrebbero rappresentare un elemento di conferma della passata presenza del gallo cedrone nell’area del Gran Sasso. Attualmente in Italia il gallo cedrone è presente solo nel settore orientale della catena alpina, in Lombardia orientale, in Trentino-Alto Adige, in Veneto ed in Friuli – Venezia Giulia, mentre la specie nel 1910 si è estinta in Piemonte e nel 1925 in Valle d’Aosta, a causa eccessiva pressione venatoria a cui in passato era soggetta. In Valle d’Aosta sul finire degli anni ’70 dello scorso secolo si è portato avanti un tentativo di reintroduzione del gallo cedrone che ha avuto esito negativo, a differenza di quanto avvenuto in analoghe situazioni in Scozia, in Polonia ed in Bulgaria. Si è detto in precedenza che Plinio il Vecchio non riportava la presenza dell’urogallo nell’area appenninica, ma bisogna ricordare che questo autore era nativo di Como o di Verona ed aveva una conoscenza più diretta della fauna della regione alpina rispetto a quella appenninica. Si potrebbe ipotizzare che già ai suoi tempi, un po’ come accadeva per il camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata), la diffusione del gallo cedrone sui rilievi dell’Italia centrale e di qualche altro settore appenninico fosse così ristretta da essere completamente ignorata al di fuori delle aree di sopravvivenza, che per il loro carattere impervio ospitavano anche una presenza umana ridottissima. E’ probabile che il periodo immediatamente successivo all’ultima glaciazione, quando conifere come l’abete bianco (Abies alba), il pino nero (Pinus nigra), il pino laricio (Pinus nigra laricio), il pino silvestre (Pinus sylvestris), il pino loricato (Pinus leucodermis) il pino mugo (Pinus mugo) e l’abete rosso (Picea abies), rappresentavano insieme alle latifoglie una componente importante della copertura forestale nei diversi settori della catena appenninica, vide la diffusione del gallo cedrone anche nell’Italia peninsulare, forse fino alla Calabria, ma di tale presenza non abbiamo alcuna prova certa. In seguito una preda così ambita per le sue grandi dimensioni fu precocemente sterminata in buona parte della regione appenninica dalle comunità di cacciatori-raccoglitori del Mesolitico e del Neolitico, tanto che presto, forse già in epoca preromana, in molti luoghi si perse anche la memoria di questo animale.  Piccole popolazioni di urogallo forse sopravvissero nelle aree più selvagge e meno raggiungibili, sui gruppi montuosi più elevati, dove perdurò più a lungo anche la diffusione di abetine e pinete, progressivamente distrutte per il valore del loro legname e per far posto a pascoli sempre più estesi. Il gallo cedrone, ad eccezione del periodo riproduttivo, è una specie molto elusiva, che tende a trascorrere molto tempo tra le chiome degli alberi sempreverdi, la sua esistenza può passare per questo inosservata nei luoghi scarsamente frequentati. Il versante settentrionale del Gran Sasso, che per molto tempo, almeno fino al XVI secolo, ha conservato vasti boschi di abete bianco e di faggio, oltre a dense macchie di pino mugo che si estendevano oltre il limite superiore della vegetazione arborea, ha mantenuto a lungo habitat idonei alla presenza di questo Fasianide. Attualmente il pino mugo si è completamente estinto e l’abete bianco si rinviene con pochi nuclei sporadici, ma in passato questa essenza arborea deve aver caratterizzato fortemente la copertura vegetale del Gran Sasso, con solenni abetine e boschi misti di abete e faggio che si estendevano dagli 800 ai 1700 m di quota. La Selva degli Abeti di Tossicia o Selva di Ornano oggi rappresenta il principale residuo di quelle antiche foreste, che in virtù dell’esposizione settentrionale e dell’elevata piovosità riuscivano a spingersi fino a quote abbastanza basse, dove su terreni profondi gli abeti dovevano raggiungere uno sviluppo imponente, paragonabile a quello delle più celebrate abetine appenniniche, tra le quali figura anche l’abetina di Rosello, in provincia di Chieti. Più ad occidente, nel territorio di Fano Adriano, il Bosco di Lamalunga-Incodaro ha ospitato abeti bianchi secolari fino ai primi anni ’70 dello scorso secolo, ma successivamente, a seguito di tagli distruttivi, la fisionomia di tale formazione boschiva è stata notevolmente modificata ed oggi in quest’area la presenza di Abies alba è solo un pallido ricordo della situazione passata. Proprio le selve ricche di grandi faggi e di vetusti abeti del versante settentrionale del Gran Sasso e forse dei vicini Monti della Laga potrebbero essere state l’ultimo rifugio di Tetrao urogallus sull’Appennino, una piccola popolazione isolata sopravvissuta fino ai primi decenni dello scorso secolo, di cui la signora novantacinquenne Rosina Lisii di Cerqueto forse custodisce oggi l’ultima memoria. Altre testimonianze della trascorsa presenza della specie nella zona potrebbero essere le rappresentazioni stilizzate su antichi manufatti in ceramica di produzione locale, citate nell’articolo di Adina Di Cesare, ma queste potrebbero essere anche riproposizioni, secondo un gusto locale, di decorazioni zoomorfe di tradizione pugliese, visti gli scambi tra i due ambiti culturali determinati dalla transumanza. Più probante sembra essere il bassorilievo in ferro battuto attribuito al fabbro Astolfo Moriconi di Nerito di Crognaleto e realizzato forse intorno ai primi anni del 1900, descritto in un altro articolo di Vito Giovannelli nel numero di gennaio di Cerqueto InForma. In questo caso il soggetto rappresentato ricorda nelle fattezze in maniera abbastanza precisa un maschio di gallo cedrone, con l’ampia coda distesa durante la parata amorosa, tale raffigurazione potrebbe presupporre un’osservazione diretta dell’animale, forse proprio nella località di origine dell’autore. Per quanto concerne eventuali resti fossili fino ad ora nell’area appenninica manca qualsiasi reperto riferibile al gallo cedrone, tuttavia bisogna precisare che il riconoscimento dei resti scheletrici delle singole specie di uccelli non è sempre agevole e questi reperti nelle pubblicazioni vengono sovente indicati genericamente come “aves”. Per l’Abruzzo esistono comunque resti attribuiti al fagiano di monte (Lyrurus tetrix) riferibili al Paleolitico superiore ed al Mesolitico, rivenuti nel cosiddetto “Riparo di Venere”, nella Grotta di Ortucchio e nella Grotta La Punta, cavità situate presso la piana del Fucino, dove la specie durante ed al termine dell’ultimo periodo glaciale era oggetto di caccia insieme alla pernice bianca (Lagopus muta), scomparsa anch’essa dall’Appennino.  Il fagiano di monte o gallo forcello, come si è detto in precedenza, è un Fasianide appartenente alla sottofamiglia dei Tetraonini, strettamente imparentato con il gallo cedrone, tanto da dare origine ad ibridi fecondi a seguito di incrocio. Oggi questa specie, benché in diminuzione, in Italia sopravvive su tutte le Alpi, popolando spesso zone situate ad altitudini leggermente più elevate rispetto a quelle preferite da Tetrao urogallus, nella fascia dei boschi di conifere e degli arbusteti di altitudine. Nei paesi dell’Europa settentrionale Lyrurus tetrix può essere comune anche nei boschi di pianura, ma nella penisola balcanica, dove è più rara del gallo cedrone, le sua distribuzione si presenta oggi quasi puntiforme e limitata ai principali gruppi montuosi.Foto n.2 Aspetto odierno della località detta Fonticelle, in territorio di Cerqueto, si nota che la vegetazione arborea ed arbustiva ha invaso gran parte delle radure un tempo esistenti (Ph Giorgio Brazzoduro) Il fagiano di monte presenta dimensioni decisamente più ridotte rispetto al gallo cedrone, raggiungendo un peso che negli esemplari maschi arriva ad appena 1200-1300 g, mentre la femmina si ferma a 750-1000 g. La maggiore leggerezza consente a questa specie una migliore capacità di volo, permettendole di effettuare spostamenti altitudinali stagionali e spostamenti erratici anche a grandi distanze. Tale maggiore grado di erratismo ha determinato talvolta la comparsa di singoli individui di gallo forcello provenienti dalla catena alpina sui rilievi dell’Appennino centro-settentrionale, fino alla Toscana ed all’Umbria, come riferisce M. Masseti nel 2010. Probabilmente anche il fagiano di monte sopravvisse dopo l’ultimo periodo glaciale in alcuni areali relitti situati sui più elevati gruppi montuosi abruzzesi, dove venne in seguito eliminato dalla caccia. Le catture di individui erratici di fagiano di monte costituivano quindi le uniche testimonianze recenti della presenza di Tetraonini per l’Appennino, fino alle notizie riportate nel numero di gennaio 2015 di Cerqueto InForma. Le affermazioni della sig.ra Rosina Lisii in esso riportate sembrano delineare in maniera precisa e dettagliata i tratti caratteristici della livrea e del comportamento del gallo cedrone e ad una successiva richiesta ella ha indicato all’autrice dell’articolo che il nome dialettale dell’animale era hallë citraunë , che corrisponde all’italiano gallo cedrone. La località di osservazione indicata dalla sig.ra Rosina, detta localmente  Fëntëcellë (foto n. 2), secondo la descrizione che ne riporta Adina Di Cesare è probabile che rappresentasse un’arena di canto frequentata dai maschi del Galliforme durante la primavera, forse questo è il luogo dove per l’ultima volta è risuonato sull’Appennino il peculiare richiamo dei maschi dell’urogallo, descritto con precisione nei suoi passaggi nella testimonianza della sig.ra Rosina. Per eliminare i dubbi che possono rimanere intorno a questa testimonianza sarebbe opportuno approfondire l’indagine ricercando altre testimonianze, documenti o toponimi che facciano in qualche modo riferimento alla passata presenza dell’animale nell’area del Gran Sasso o dei Monti della Laga.  Se si rendessero disponibili ulteriori prove o addirittura reperti di Tetrao urogallus a conferma di questa passata diffusione, si potrebbe magari avviare uno studio di fattibilità in vista di un’eventuale reintroduzione dell’animale nei siti che forse ne videro la maestosa presenza fino a circa un secolo fa.  Con l’adozione di interventi selvicolturali mirati si potrebbero ripristinare degli habitat funzionali alla peculiare ecologia della specie. Considerando il fatto che i luoghi ricadono all’interno di un parco nazionale, si potrebbe progettare e realizzare un piano di reintroduzione concepito secondo quei criteri rigorosi e vincenti che di recente hanno portato a conseguire numerosi successi nel campo della reintroduzione in natura di specie selvatiche, non ultimo il ritorno del camoscio appenninico sul Gran Sasso e sulla Maiella.

Nicola Olivieri

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