Oltre la rete della prigionia

In Libia,  1939-40

Nel 1939, all’inizio del secondo conflitto mondiale, la Libia, colonia italiana, era militarmente impreparata. Il Governo italiano, pur avendo dichiarato la non belligeranza, provvide subito a potenziarne l’apprestamento militare con l’invio di nuovi rinforzi. Stanislao Mazzetta, matricola N. 870,   soldato di leva, classe 1918,  già congedato il 24 giugno 1938, fu richiamato alle armi il 15 febbraio 1939 e arruolato nel 45o Reggimento Artiglieria Cirene. Inviato immediatamente  per la vestizione al 14o Reggimento  D. F. di Bari, partì per l’Africa Settentrionale e   raggiunse Bengasi il 29 febbraio, con imbarco a Napoli. A El Abiar, nella municipalità di Barce,  dove era dislocato il suo reggimento, la vita militare trascorse serena fino all’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940. Si distinse come aiutante furiere, addetto alla contabilità. Quindi Stanislao si trovò in territorio dichiarato in stato di guerra dall’11 giugno 1940 con  il 45o Reggimento Artiglieria mobilitato, uno dei tre reparti della 63a Divisione Cirene. A coordinare i servizi era l’ Intendenza A. S. in Tripoli, alle dipendenze del Comando superiore delle forze armate dell’Africa settentrionale, con una delegazione d‘intendenza a Bengasi. Nel settembre del 1940 l’Italia iniziò l’invasione dell’Egitto con l’obiettivo di impossessarsi del Canale di Suez.  Presa  Sidi El Barrani il 16 settembre, la 10ª Armata italiana, di cui faceva parte la Divisione Cirene, formò una linea difensiva,  formata da campi  trincerati, separati da ampie zone desertiche e  per niente collegati tra di loro. Il generale Graziani schierava in prima linea il Corpo d’armata libico con la 1ª Divisione fanteria libica  a Maktila (a est di Sidi El Barrani, vicino alla costa), la 2ª Divisione fanteria libica a Tummar,  e il Raggruppamento Maletti più a sud-ovest, come presidio di Nibeiwa.  In secondo scaglione, a 20 km di distanza a ovest, direttamente a Sidi El Barrani, era posizionata la Divisione Camicie Nere 3 gennaio. Più indietro erano presenti le due divisioni del XXI Corpo d’armata, con la Divisione fanteria Cirene schierata sulla collina montuosa di Sofafi,  a 30 km a sud-ovest di Nibeiwa, e la Divisione fanteria Catanzaro schierata a Buq Buq sulla costa a circa 25 km a ovest di Sidi El Barrani. L’importantissimo settore compreso tra Nibeiwa e Sofafi era esposto ad una pericolosa penetrazione corazzata britannica, non era solidamente occupato ma solo pattugliato. In totale, le forze italiane mettevano in campo circa 50.000 uomini con 400 cannoni, 60 carri leggeri e 30 carri medi M11. Schierati più ad ovest, ma non destinati ad essere coinvolti nel primo attacco britannico, vi erano poi i restanti reparti della 10ª Armata italiana. Settore  di Sollum e Halfaya:  XXIII  C. A. con le divisioni Marmarica, 1ª e 2ª CCNN. In riserva il XXII corpo con la  divisione Sirte, una brigata corazzata  speciale Babini e comando artiglierie di manovre. Di fronte alle debolezze tattiche evidenziate dagli italiani, il generale britannico O’Connor pensò,  fin da subito, un’azione controffensiva a  sorpresa direttamente a Sidi  El Barrani senza attendere il nemico a Marsa Matruh, dove si raccoglieva il grosso delle forze britanniche.  Naturalmente Churchill approvò il progetto. A metà ottobre dopo aver attraversato il Mar Rosso senza opposizione delle forze italiane in Africa Orientale, il convoglio britannico giunse in Egitto rafforzando sensibilmente la Western Desert Force di O’Connor, dotato com’era di carri armati moderni e efficaci – i pesanti Matilda e i carri armati medi Cruiser oltre ai cannoni anticarro, ai cannoni campali e ai cannoni antiaerei – e rafforzato da una aviazione ben addestrata. Insomma la 7ª Divisione corazzata (i  famosi Topi del Deserto, come saranno in seguito definiti ) divenne una potente unità meccanizzata e mobile in grado di dominare il campo di battaglia nel deserto. Il piano contro lo schieramento italiano di Sidi El Barrani, denominato Operazione Compass, in riferimento all’utilizzo della”bussola” per muoversi nel deserto, oppure all’”accerchiamento” visto il piano operativo adottato dai britannici, fu perfezionato con un’audace manovra notturna per cogliere di sorpresa gli italiani. La Wester Desert Force del generale O’Connor metteva in campo per l’operazione due divisioni complete (la 7ª Divisione Corazzata e la 4ª Divisione fanteria indiana), con una formazione ad hoc e il 7° Royal Tank Regiment (RTR), la 6ª Divisione australiana stava completando il suo addestramento in Palestina e sarebbe giunta più tardi. In totale  i britannici mettevano in campo 36.000 uomini con 120 pezzi d’artiglieria, 60 autoblindo e 275 carri armati.

Operazione Compass

L’operazione Compass ebbe inizio la mattina di sabato 7 dicembre 1940, quando i bombardieri della Royal Air Force attaccarono a sorpresa gli aeroporti italiani. L’azione serviva non solo a privare gli italiani della copertura aerea, ma anche a coprire l’avanzata dei reparti britannici obbligando i ricognitori nemici a rimanere a terra. Le truppe di terra britanniche si mossero lo stesso pomeriggio per intraprendere la lunga marcia di 110 Km. in pieno deserto per aggirare lo schieramento italiano  e gli italiani non si accorsero neppure dell’avanzata dei reparti britannici. Il primo campo trincerato italiano era Nibeiwa, un rettangolo di circa 1 km per 2 circondato da muri e da un fossato anticarro, ma con un campo minato incompleto sul lato posteriore per permettere ai veicoli di rifornimento di accedervi più agevolmente. Questo venne subito notato dai reparti di ricognizione britannica. Il campo era presidiato dal Raggruppamento Maletti, una formazione mista composta da reparti di fanteria libica e da alcuni battaglioni di carri armati italiani. Il battaglione di carri medi M11 della formazione non stazionava all’interno del campo ma all’aperto, fuori dal muro perimetrale. La mattina del 9 dicembre 1940  l’artiglieria britannica iniziò un violento bombardamento contro le posizioni italiane, cogliendo totalmente di sorpresa i reparti che le presidiavano. Verso le 8.00, iniziò l’attacco della 11ª Brigata fanteria indiana, appoggiata dai carri del 7° RTR, che ebbero facilmente la meglio sui più leggeri carri M11, distruggendone 15 e catturando gli altri senza dare il tempo ai carristi italiani di reagire. Le truppe anglo-indiane penetrarono nel campo dall’angolo nord-ovest, con furioso combattimento contro i reparti libici che lo presidiavano. Gli italo-libici si batterono valorosamente ma la sorpresa e la superiorità britannica annientarono la base di Nibeiwa. Dopo tre ore il Raggruppamento Maletti fu completamente annientato, con la perdita di 800 caduti, 1.300 feriti e 2.000 prigionieri. I britannici persero una cinquantina di uomini tra morti e feriti. La cattura del campo trincerato di Nibeiwa aprì un varco nello schieramento italiano: con una conversione verso est, verso le 14.00, la 5ª Brigata fanteria indiana, poi raggiunta dal 7° RTR, si avventò sui tre campi trincerati affiancati, nei quali era schierata la 2ª Divisione libica, attaccandoli dal retro dopo un bombardamento d’artiglieria preliminare durato un’ora. Nonostante l’eroica resistenza, alle sei di sera la divisione aveva cessato praticamente di esistere, con solo pochi reparti che riuscirono a fuggire verso Sidi El Barrani; la 1ª Divisione libica, rimasta isolata, ricevette l’ordine di ripiegare immediatamente sulla stessa Sidi El Barrani. Mentre erano in corso questi combattimenti, reparti esploranti della 7ª Divisione corazzata britannica avevano raggiunto praticamente indisturbati la strada Sidi El Barrani – Buq Buq, tagliando così la principale via di comunicazione degli italiani. L’attacco britannico proseguì il 10 dicembre, quando la 16ª Brigata inglese (parte della 4ª Divisione indiana), sferrò intorno alle 5.30 un attacco contro Sidi El Barrani, ora presidiata dalla 1ª Divisione libica e dalla Divisione Camicie Nere 3 gennaio. Il primo assalto venne respinto con gravi perdite, ma i britannici rinnovarono l’attacco con l’appoggio dell’artiglieria pesante, dei carri del 7° RTR e dei bombardieri della RAF. Alle 13.00 i reparti di Camicie Nere che difendevano i settori occidentale e meridionale dello schieramento cedettero, permettendo ai britannici di penetrare nel perimetro italiano. Alle 17.30 la resistenza organizzata cessava, anche se alcuni reparti di Camicie Nere continuarono a combattere fino alla notte. I resti della 1ª Divisone libica si arresero al Gruppo Selby la mattina seguente insieme al comandante del Corpo d’armata libico, generale Gallina, catturato con tutto il suo stato maggiore. Con il suo schieramento ormai compromesso, Graziani diede ordine di far ripiegare le divisioni Catanzaro e Cirene, che si trovavano ora in una posizione molto esposta. Le due unità iniziarono il ripiegamento alle prime luci dell’11 dicembre; la Cirene, seppur disturbata da attacchi aerei, riuscì a raggiungere il passo dell’Halfaya nel pomeriggio del giorno dopo, ma la Catanzaro venne sorpresa in campo aperto, mentre ripiegava dai carri della 7ª Divisione corazzata inglese, e distrutta dopo una dura lotta. In appena tre giorni e con perdite irrisorie, i britannici avevano annientato quattro divisioni di fanteria, un raggruppamento corazzato e vari reparti di supporto, facendo un totale di 38.000 prigionieri, tra cui quattro generali.

La presa di Bardia e la cattura

L’intera Operazione Compass era  stata concepita più che altro come un’incursione contro le avanguardie dello schieramento italiano. L’obiettivo era quello di scompaginarle in modo da permettere la riconquista di Sidi El Barrani; la possibilità di spingersi oltre il confine libico non era nemmeno presa in considerazione. Visto il successo ottenuto, O’Connor affidò alla 7ª Divisione corazzata il compito di portare avanti l’azione, ma dovette rinunciare alla 4ª Divisione indiana il suo posto venne preso dalla 6ª Divisione australiana, seppur ancora incompleta. L’attacco della 7ª Divisione corazzata contro le posizioni italiane iniziò il 13 dicembre; le truppe italiane si batterono bene e riuscirono a contenere gli attacchi britannici, anche grazie all’intervento dei carri M13 della brigata Babini. Il 14 dicembre, dopo aver appreso che i britannici erano riusciti ad aggirare il fianco dello schieramento e si trovavano a 25 km da Tobruk, Graziani diede ordine ai reparti italiani di ripiegare su posizioni più difendibili; il XXIII Corpo d’armata del generale Annibale Bergonzoli abbandonò quindi Sollum e Halfaya e il 16 dicembre ripiegò sulla piazzaforte di Bardia. Per la difesa di Bardia il XXIII Corpo poteva contare su due divisioni di Camicie Nere (la 28 ottobre e la 23 marzo) e due di fanteria (la Marmarica e la Cirene), ma dovette rinunciare ai carri M13 della brigata Babini, inviati ad Ayn el Ghazala per proteggere Tobruk; la cinta perimetrale di Bardia, lunga 30 km, non era particolarmente robusta, ma Bergonzoli fece il possibile per rafforzarla. Isolata la piazzaforte da terra, il XIII Corpo d’armata britannico (la nuova denominazione della Western Desert Force) iniziò l’attaco a Bardia il 3 gennaio 1941, dopo un prolungato bombardamento da terra e dal mare che indebolì notevolmente le difese italiane. Appoggiata dai 26 superstiti Matilda del 7° RTR, la fanteria della 6ª Divisione australiana riuscì ad aprire un varco nel settore occidentale già alle 7.00. Una serie di piccoli scontri molto duri, in corrispondenza dei capisaldi tenuti dagli italiani. Sfondato il perimetro difensivo, gli australiani attaccaro all’alba del 4 gennaio il settore sud-orientale, dove i capisaldi tenuti dai reparti della Cirene vennero attaccati dal retro e travolti; l’abitato di Bardia venne occupato nel pomeriggio dello stesso giorno. Stanislao venne catturato dagli inglesi insieme a tutti i superstiti.  Era  riuscito a farla franca anche grazie alla sensibilità e umanità del suo Colonnello Michele Sozzani  che lo aveva fatto indietreggiare in un momento molto critico proprio perché sapeva che il suo unico fratello, Antonio Mazzetta, era impegnato anch’egli sul fronte.  L’estremità settentrionale del perimetro italiano venne attaccata all’alba del 5 gennaio, dopo un intenso bombardamento d’artiglieria; verso mezzogiorno la resistenza cessò del tutto, ma il generale Bergonzoli riuscì ad evitare la cattura, percorrendo a piedi i 120 chilometri di deserto tra Bardia e Tobruk (ove giunse il 9 gennaio) con un piccolo gruppo di ufficiali. Con la perdita di 456 uomini, i britannici avevano inflitto agli italiani circa 45.000 tra morti, feriti e prigionieri, oltre alla perdita di 430 pezzi d’artiglieria, 13 carri medi e 117 carri leggeri. Il successivo obbiettivo per le truppe di O’Connor era Tobruch, importante porto sul Mediterraneo e ultima piazzaforte fortificata rimasta in mani italiane in Cirenaica, fino alla battaglia nel sud Bengasino, che fu conquistata dopo pochi mesi.

La prigionia in India e in Inghilterra – POW (Prisoner Of War)

Tutto si può sapere degli schieramenti, delle artiglierie nelle battaglie, dei movimenti  delle varie formazioni ma poca attenzione è stata dedicata dagli storici, dalle autorità militari e dalla stessa opinione pubblica ai caduti e ai prigionieri. Di questi generalmente viene dato solo il numero, i singoli non fanno storia e soprattutto non fanno storia i vinti.  Si conoscono i nomi dei vari comandanti dei reparti ma è sempre molto difficile, se non impossibile, sapere i dettagli dei vari prigionieri o dei caduti. Eppure quella dei prigionieri è una storia affascinante e coinvolgente, una storia di tutti, sia dei vincitori che dei vinti. Tante storie, tutte diverse, storie di esclusi, esclusi dagli affetti, dalla patria del paese, esclusi da se stessi, da quello che erano. Sconcertanti i titoli delle prime pagine  del Corriere della sera di quei giorni, in cui si sottolineano i successi della nostra artiglieria e aviazione in Cirenaica e proprio il cinque gennaio, a ‘proposito della battaglia di Bardia,  si parla di notevoli perdite inflitte al nemico.  La prigionia per Stanislao inizia il 4 gennaio 1941. Per i prigionieri c’era solo l’incognita e il mistero del futuro. Ad attendere Stanislao c’era il lungo viaggio verso l’India. Le peripezie cominciarono in Egitto. I prigionieri venivano ammassati a Geneifa, sul canale di Suez, in attesa dell’imbarco. Caricati sui piroscafi, attraversavano il Mar Rosso verso sud, transitavano davanti alle coste dell’Eritrea, sostavano ad Aden, nello Yemen, dopodiché attraversavano l’Oceano Indiano, ammassati nella stiva, al caldo dell’equatore, per dieci lunghi giorni,  prima di approdare in India, a Bombay. La grande ritirata del dicembre 1940 sul fronte libico-egiziano aveva aumentato enormemente il numero dei prigionieri e in India sorsero diversi campi: Ramgahr, Bophal, Bangalore oltre a   Dera Duhm  per i generali, e Yol per gli ufficiali. Questi erano Prisoner Of  War Camps (campi per i prigionieri di guerra).  Al termine Yol i britannici attribuirono il significato Young Officers Line (la linea dei giovani ufficiali).  Quindi dopo un altro  lungo viaggio verso sud su una tradotta militare a carbone molto lenta, Stanislao venne portato da Bombay nel campo di Bengalore.  In India a quel tempo spirava vento di libertà e indipendenza ed era inevitabile che fra la popolazione locale e i prigionieri italiani ci fosse cordialità e solidarietà. Durante le fermate nelle stazioni ferroviarie, la gente si accalcava attorno ai treni carichi di prigionieri e gridava “Italiani, Mussolini!”.  In India, suo malgrado, Stanislao venne generosamente ospitato dai soldati di Sua Maestà Britannica. E vi rimase fino a luglio del 1944!  I sottufficiali e i soldati si fermavano a Bangalore, mentre gli ufficiali ripartivano verso il nord, fino ai piedi delle montagne più alte del mondo, l‘Himalaya. La vita nei campi di prigionia era molto dura, soprattutto all’inizio. Raccontava il nostro Stanislao che i carcerieri erano inflessibili nel distribuire i viveri. Non una kcal in più di quelle stabilite dalla convenzione di Ginevra.  I campi erano recintati da un reticolato  alto 3-4 metri, delimitato dal filo spinato, controllati notte e giorno per cui era impossibile allontanarsi. Sotto l’aspetto dei rapporti umani gli Inglesi erano molto freddi e distaccati. Non facevano per gli Italiani nulla di più di quello che era dovuto, anzi lasciavano percepire un malcelato disprezzo, considerandoli culturalmente inferiori. Al campo i prigionieri lavoravano sodo tutto il giorno, alle prese con i lavori più disparati, e riuscivano a sopravvivere non si sa come, laddove sofferenze, privazioni, malattie hanno tormentato tante vite innocenti. I campi erano ben organizzati e tutto sommato erano a misura d’uomo, se di uomo si può ancora parlare e non di semplici pedine. Erano state persino coniate banconote di diverso taglio, coupon da utilizzare solo all’interno del campo, al fine di evitare contraffazioni. Indimenticabili le ore sotto il sole cocente, nonostante i cappellini di foglia di banano in dotazione, nel piazzale anticampo per la conta, che si faceva due volte al giorno e  che spesso veniva ripetuta perché i conti non tornavano. Nelle baracche il tempo trascorreva sempre uguale, le settimane si accavallano mentre la guerra proseguiva, il cuore batteva per la nostalgia del paese, degli amici e della famiglia. Un tempo sospeso, lungo,  senza fine e senza futuro. Un grande regalo, però, gli fu fatto; gli fu offerta la possibilità di imparare la lingua inglese. Grandi  maestri gli inglesi nel diffondere la propria lingua  e cultura!  Stanislao non si lasciò sfuggire l’occasione e conseguì  il diploma di I e II livello dell’Istituto Ortologico di Cambridge, di cui era orgogliosissimo. Del suo inglese andava giustamente fiero ed era visibilmente compiaciuto non appena poteva metterlo in pratica. Suo inseparabile compagno, il vocabolario di Inglese, che ha sempre  gelosamente custodito.   Nel Maggio del 1944 fu  trasferito in Inghilterra passando per diversi campi di prigionia, da Londra a Norwich, in un coy W. D. Camp (Campo separato, del Ministero della Difesa) in  Reepham Road. La situazione era sicuramente migliorata dopo l’Armistizio,  ma  serviva la forza lavoro e la liberazione dei prigionieri non fu automatica.  Ai prigionieri cooperanti, com’era Stanislao, vennero allentati i vincoli, venivano concessi permessi per uscire e per svolgere attività lavorative esterne, ma rimanevano pur sempre prigionieri.  Era il Natale del 1944 e Stanislao si trovava a Londra in libera uscita e non sapendo dove andare si recò al cinema. Non c’era nessun altro, solo qualche  prigioniero! A Natale gli inglesi stavano tutti a casa ma  i prigionieri non avevano una casa, una famiglia con cui trascorrere il Natale! Fu un Natale molto triste!

Finalmente, dopo  cinque anni e quattro mesi di prigionia, apparve la luce! Già nel dicembre del 1945 aveva avuto sentore della fine, come riferisce al suo amico compaesano Pasquale Zaccagnini nonché prigioniero a Shropshire, non lontano da Birmingham, in una delle lettere inviatagli nel dicembre 1945.   Il 4 maggio 1946 Stanislao giunse al Centro alloggio N. 1001 di Napoli, precisamente a Fuorigrotta, periferia della città. In quelle baracche, costruite appositamente per il rimpatrio dei prigionieri, avveniva lo smistamento dopo le lunghe formalità burocratiche. Vi era anche un ufficio postale di cui i militari potevano servirsi per inoltrare un telegramma alle famiglie e dare loro la lieta notizia dell’avvenuto rimpatrio. Nessun addebito fu elevato in merito alle circostanze della cattura ed al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra come da verbale della Commissione interrogatrice di C. A. di Napoli in data  04. 05 1946. Seguì immediatamente una licenza di 60 giorni. Era stato collocato in congedo illimitato provvisorio, cioè senza un limite temporale definito, ovvero interrompibile in caso di necessità nazionale o in caso di successivo reintegro nelle FF. AA., ai sensi della circ. 23268/ M in data 27.09. 1945, quando era ancora in Inghilterra, ma non era stato sufficiente al rimpatrio. E solo il 31.12.1963 fu collocato in congedo assoluto per raggiunti limiti di età.  Era finalmente un civile, un cittadino libero, aveva finalmente chiuso, anche ufficialmente, quella triste esperienza di soldato, combattente e prigioniero. Gli fu conferita la croce al merito  di guerra in virtù del R.D. 14,12.1942 N. 1729 per la partecipazione al conflitto 40-43 in data 26.3.71 n. 2002.

Durante i suoi racconti, a volte anche spiacevoli, il nostro Stanislao non aveva  una parola di odio nei confronti dei suoi carcerieri e, anche senza ammetterlo esplicitamente,  lasciava trasparire una sorta di rispetto e stima nei confronti degli Inglesi,  verso la loro civiltà  e il loro modo di pensare. Il contatto con un mondo diverso e sicuramente all’epoca più sviluppato  e per un periodo di tempo così lungo, pur nella sua posizione di prigioniero, aveva sviluppato in lui una profonda consapevolezza della realtà e rappresentato un momento di crescita, senza misconoscere o voler cancellare le sofferenze subite. Negli ultimi anni di vita, gli capitava di dare libero sfogo alla memoria e ritornava a quelle esperienze incancellabili, e raccontava del deserto libico, della fame, della sete, ma senza mai lamentasi, anzi si sentiva forte delle sue esperienze! Storie di uomini di grande coraggio e orgoglio personale che lentamente stanno affondando nell’oblio perché ormai le loro dirette testimonianze sono scomparse!

Fonti

  • Testimonianze dirette di Stanislao Mazzetta e documentazione militare.
  • ATTI DEL CONVEGNO TENUTO A TORINO NEL 1987ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA IN PIEMONTE , Una storia di tutti: prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale
  • PRISONER OF WAR CAMPS (1939 – 1948) – PROJECT REPORT by ROGER JC THOMAS – English Heritage 2003
  • THE BRITISH LIBRARY, Asian & African Reference Service
  • CORRIERE DELLA SERA,  Milano – Primo trimestre 1941
  • Bollettini di guerra

Siti consultati:

www.regioesercito.it
http://www.guardian.co.uk/news/datablog/2010/nov/08/prisoner-of-war-camps-uk


Adina Di Cesare

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