Intervista a Gianfranco Spitilli, “alleato delle comunità”

Gianfranco Spitilli, autore di diversi studi e ricerche etnoantropologiche, è il promotore del progetto Culture Immateriali. La ricerca sul campo di Don Nicola Iobbi, che prevede la messa in sicurezza, lo studio e la diffusione dell’enorme patrimonio di beni immateriali , raccolto da Don Nicola fin dagli inizi anni sessanta.
L’antropologo, raggiunto all’estero dove al momento si trova per motivi di lavoro, ha risposto gentilmente alle mie domande. Un’ intervista per conoscere meglio l’uomo e la sua storia, le radici della sua antropologia,  la passione per il nostro paese e  la  comunità cerquetana.
  • Qual è il tuo background culturale e come definiresti il tuo ruolo professionale?

La mia formazione umana e professionale è piuttosto ingarbugliata. Ed è cominciata tanti anni fa. Da piccolo ho avuto la fortuna di beneficiare della presenza e della grande e profonda cultura di una donna molto particolare, che per me era come una nonna, Fulvia Celommi, la nipote del pittore Pasquale Celommi. Era un’amica di famiglia ed era una persona straordinaria, capace di incantare i bambini parlando di Dante, delle filosofia greca, ma anche cucinando il pesce alla maniera dei vecchi pescatori di Roseto. E poi la mia famiglia. Il mio bisnonno, Giovanni Fabbri, era un editore nell’Abruzzo di fine Ottocento e del primo Novecento, uno studioso, come mio nonno, che amava l’arte e le tradizioni, dipingeva, organizzava mostre, scriveva; tutto questo è poi passato a mia madre, pittrice anche lei, e che conobbe Don Nicola Jobbi proprio in occasione della sua tesi di laurea, nei primi anni ’70 sull’arte popolare, e venne a Cerqueto a fotografare i pezzi del museo e a parlare con lui: le passioni non nascono mai a caso!

Forse sono partito da lontano, ma queste cose mi hanno formato in modo decisivo, così come la mia adolescenza in mezzo ai libri e ai tanti documenti lasciati da 50 anni di attività editoriale del mio bisnonno, del quale ho sempre una foto davanti a me. Per questo mi trovo molto a mio agio fra i documenti e quello che raccontano, e quando ho conosciuto Don Nicola, la sua storia e il suo immenso archivio è stato per me come tornare a quelle origini, e a quel sapore respirato nell’infanzia e durante la mia crescita. Da parte di padre invece ho ereditato la passione per le campagne, e per la gente; era una famiglia di sarti e di bandisti, e viveva molto a contatto coi contadini. Ma tutto questo io l’ho scoperto dopo, fino a sedici-diciassette anni ignoravo il mondo contadino. Ci sono entrato grazie a Penna S. Andrea, che ho cominciato a frequentare allora, e per me è stata una scoperta che non è ancora finita, anzi, che è diventata la mia vita e il mio lavoro.

Tutto questo si è intrecciato con il percorso di studi. Sono partito da scuole artistiche e all’università ho fatto giri piuttosto viziosi, tra Storia dell’Arte e Studi Orientali, fino alla scoperta dell’Antropologia. In quel momento ho capito che la mia passione quotidiana – frequentare le campagne e cantare – poteva trovare una strada anche nella ricerca, ed è una strada che ho preso senza più esitazioni. Laurea e poi dottorato in Etnoantropologia, con un periodo di sei mesi di permanenza anche a Parigi, dove ho mantenuto contatti e continuo a portare avanti una specializzazione postdottorale, proprio sulla vicenda di Jobbi e Cerqueto.

Ma ci sarebbe molto da dire. Ho sempre condotto lo studio in parallelo con la ricerca nei territori, incontrando gente, paesi, comunità. Con tanti sono diventato amico, e per me sono anche dei maestri, soprattutto i tanti vecchi che ho incontrato, a partire dalla mia prima ricerca a Loreto Aprutino, sulla festa di San Zopito; i miei pensieri quotidiani sono pieni delle parole di queste persone, e dei loro insegnamenti. Dunque se devo definire il mio ruolo, direi che porto avanti un tipo di antropologia partecipata, cioè con un grande coinvolgimento umano, emotivo, personale, e non riesco a dividere neanche un po’ la mia vita dal mio lavoro.

  • Chi è l’antropologo o il ricercatore etnografico che preferisci?

Se ne devo citare uno, cito Claude Lévi-Strauss, a mio avviso il più grande antropologo del Novecento, per la geometria del suo pensiero, per la complessità delle sue ricerche e delle sue speculazioni, per la profondità con la quale ha cercato di comprendere le culture. E per la meravigliosa capacità di scrittura. I testi che ha prodotto sono molto difficili, ma sono tutti dei poemi.

Poi ci sono dei ricercatori che amo per la loro umanità e la particolarità delle loro esperienze, ma non possono essere considerati proprio degli antropologi, anche se ci si assomigliano. Rocco Scotellaro, ad esempio, il sindaco dei contadini. Era il figlio di un calzolaio di Tricarico, in Basilicata, e dopo un periodo di studi tornò nella sua terra dove iniziò a lottare per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, e fu eletto sindaco nel 1946, a soli 23 anni. Accanto all’attività politica sviluppò un’intensa passione letteraria e per l’inchiesta, e scrisse un’opera bellissima, costruita a partire da una serie di interviste che erano anche delle storie di vita: “Contadini del Sud”. Poi Nuto Revelli, che ha compiuto delle ricerche piene di umanità nelle campagne piemontesi, facendole poi confluire nelle sue opere, come “Il mondo dei vinti”. O Danilo Dolci, piuttosto un sociologo, che nei primi anni ’50 trasferì la sua vita in mezzo ai pescatori e ai contadini poveri della Sicilia, i “banditi” di Partinico e Trappeto, al fianco dei quali lottò e produsse opere straordinarie fino alla sua morte nel 1997.

  • Un aneddoto, un ricordo dei tuoi maestri.

Fulvia Celommi l’ho già ricordata, anche se potrei parlarne per ore e ore. Quando si parla di maestri penso raramente a dei ricercatori, anche se ce ne sono che posso definire tali, come Antonello Ricci, o Giordana Charuty, ad esempio, entrambi impegnati, tra l’altro, all’interno del Comitato Scientifico del progetto su Cerqueto. Loro sono stati i miei punti di riferimento nella formazione antropologica, e lo sono tuttora.

Di Fulvia ricordo la grazia e la potenza di quello che raccontava e diceva; è difficile descriverlo ma per me è qualcosa di vivo e sempre presente. Ricordo i pomeriggi passati da lei, e l’incanto di sentirla parlare di cose difficili con una semplicità e una chiarezza disarmanti. Mi ricordo il suo sguardo, la luce che veniva dalla sua mente. È stata lei la mia maestra. Ma nella vita succedono davvero cose strane, come dei cicli che si ripresentano, o delle cose che riappaiono; lei citava sempre passi della Divina Commedia, soprattutto uno, che un giorno, con gli occhi sgranati e il fuoco nello sguardo, mi ha recitato Quintino Di Matteo prendendomi per un braccio: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”!!!

Per il resto i miei maestri sono le tante persone che incontro tutti i giorni, soprattutto i vecchi contadini e pastori, gli anziani in genere. Alcuni più di altri. Umberto e Angelo di Colledoro, ad esempio. Ma ne sono davvero tanti, e penso di essere una persona fortunata.

  • L’antropologia e l’etnologia sono le scienze che studiano l’uomo e il suo comportamento, qual è il loro compito nelle società attuali, per molti aspetti divenute sempre più complesse ed in continua trasformazione. La società primitiva, da scoprire e da studiare è divenuta sempre più rara. Che significa fare l’antropologo oggi?

L’antropologia e l’etnologia studiano il comportamento dell’uomo in società, in tutte le società, anche la nostra. Sono nate, o almeno hanno preso forma decisiva in un contesto coloniale e imperialistico, ma da quella esperienza originaria hanno poi trasformato le loro metodologie, e i loro oggetti di studio. Anche se sulle origini di queste discipline esistono discussioni e dibattiti, perché in realtà sono nate da quando l’uomo ha cominciato a osservare le culture che popolano il pianeta, e cioè millenni fa. L’etnologia in particolare, che si sviluppò come strumento di analisi dei cosiddetti “popoli primitivi”, può essere oggi molto utile per osservare anche le diversità interne alla nostra cultura; esiste ad esempio un’etnologia dell’Europa, che applica determinate metodologie all’interno delle società europee, cioè, in un certo senso, a sé stessa e alle sue stesse prerogative. L’etnologia italiana degli anni ’50-’60 è stata capace di mettere in severa discussione gli assunti dai quali partiva, facendone un oggetto stesso della ricerca. Ogni sistema culturale è relativo, e non assoluto; ma ciascun sistema culturale ci insegna qualcosa in più del mondo e delle sue logiche, così come dell’immaginazione, delle strutture del pensiero, della fede, dei sentimenti, dei modi di stare su questo pianeta.

Per me fare l’antropologo significa soprattutto due cose: entrare in contatto con la vita delle persone, con gioie, drammi, segreti, gelosie, rivalità, modi di pensiero, speranze, atteggiamenti, costruzioni mentali, simboli, rituali, punti di osservazione, esperienze; e poi riflettere, analizzare, associare, dissociare, costruire delle relazioni fra tutto quello che vedo e con cui vengo in contatto, o costruire un sistema di differenze, anche attraverso lo studio, l’analisi di altri sistemi, vicini o lontani, simili o diversi. Tutto questo ci dice tantissime cose sulla realtà in cui ci troviamo da qualche milione di anni. Poi devo dire che per me l’antropologia è uno strumento al servizio dell’uomo, cioè qualcosa che ci può aiutare a migliorare il modo di stare nel mondo, rispettando le diversità, capendo le differenze, costruendo delle vere alleanze, basate su una reale comprensione, che non è mai qualcosa di scontato ma il frutto di un lungo processo di avvicinamento. Riconosco e credo che sia uno strumento estremamente sensibile, in grado di cogliere molte sfumature necessarie e importanti.

  • Tra le istituzioni e il territorio qual è il posto dell’antropologo?

Quando parliamo di antropologia io non riesco a pensarla un’entità astratta, ma la vedo agire nella realtà. E allora vedo il suo ruolo e la sua funzione sociale e civile. Le istituzioni, a dire il vero, sono in genere quanto di più anti-antropologico conosca, cioè sono disattente, superficiali, presuntuose, arroganti, ignoranti, approssimative. Forse è un giudizio severo ma la mia esperienza mi dice questo. Eppure bisogna trovare una convivenza, e direi inizialmente anche una riconoscibilità, perché la nostra professione è poco nota, poco compresa, e poco praticata, soprattutto al di fuori delle università. Dunque è necessario fare molti passaggi, riuscire ad avere anche delle legislazioni che ci consentano di lavorare, come agli psicologi, o ai sociologi, o anche agli storici dell’arte, o gli archeologi, che si occupano di patrimoni e beni culturali in buona parte del passato, e non di esseri viventi. Il Ministero dei Beni Culturali ci riconosce oggi un ruolo quasi esclusivamente nominale, formale, ma non ci fornisce gli strumenti pratici per lavorare; siamo assenti dalle Sovrintendenze, dalle Regioni, anche dalle università, dove occupiamo spazi marginali e assai esigui, eppure siamo quelli che più di tanti altri conoscono i territori, la gente che li abita, i loro modi di vivere. Mi sembra assurdo ad esempio che dei Parchi Nazionali non abbiano questa figura professionale: c’è troppa attenzione per la natura e poco per l’uomo, come se l’uomo non fosse parte anche lui della natura. Io credo che l’antropologo debba stare nelle istituzioni, o al loro fianco, perché può apportare uno spessore di conoscenza in più e anche strategie accurate e rispettose di pianificazione e di progettazione del territorio.

  • Quanto è importante farsi indigeno, entrare in sintonia con la comunità per la riuscita di qualsiasi intervento sulla comunità?

Farsi indigeno direi poco. Questa era una vecchia illusione degli antropologi del passato. Io non sarò mai cerquetano perché non sono nato a Cerqueto, non ci sono cresciuto, così come non sono arsitano o intermesolano. Anche se ci venissi a vivere non lo sarei. Ma questo mi dà la possibilità di osservare dall’alto, da sopra, di lato, da sotto, oltre che da dentro fin dove è possibile; per un cerquetano o un arsitano è più difficile, perché per lui la sua cultura è un dato di fatto e non qualcosa da mettere in discussione, o da osservare da altre angolazioni. Gli antropologi si sono da sempre misurati con il punto di osservazione, ma sono partiti da un’altra illusione: che il loro modo di osservare non fosse a sua volta condizionato dalla propria cultura, dalla propria formazione. Dunque la presenza sul campo, sui territori, in mezzo alle comunità e alle persone, è una continua sfida interiore, un continuo andare oltre il proprio punto di vista, per avvicinarne altri, e viceversa, ma mai un annullamento delle differenze, questo mi pare impossibile oltre che dannoso. La sintonia con la comunità invece è essenziale, ed è una lunga conquista. Dipende dalle comunità ma dipende anche da cosa si va a fare in quelle comunità. A Loreto Aprutino, dove ho fatto la mia prima ricerca sul campo, sono stato accettato con grande affetto e senza alcuna forma di conflitto, ma lì sono stato sempre un esterno, qualcuno che è andato a fare ricerche e poi è tornato a casa sua, e periodicamente si è ripresentato. Quando si vogliono costruire dei progetti assieme ad una comunità, dentro una comunità, le cose sono molto diverse. Lì entrano in gioco tutte le dinamiche locali, giuste o sbagliate che siano, e bisogna imparare a comprenderle e anche a criticarle se è necessario; comunque si entra con una diversa attitudine, e anche la percezione che gli altri hanno di te cambia. Diventa un incontro nel senso pieno del termine, perché si tratta davvero di un progressivo e reciproco adattamento, per un progetto che ambisce ad essere duraturo, sviluppato negli anni, di lungo periodo.

  • Ripercorrendo le varie e a volte anche difficili fasi del rapporto con i  cerquetani c’è qualcosa che non rifaresti ?

Rifarei tutto per il semplice fatto che non credo nel ritorno al passato, neppure col pensiero. Cioè se certe cose sono accadute dovevano accadere e servivano sicuramente, e comunque non avrei potuto agire diversamente da come ho fatto, perché la complessità di certe situazioni l’ho imparata strada facendo, e prima non potevo neppure sospettarla. L’importante penso sia agire in buona fede; se il punto di partenza è questo e la buona fede è anche negli altri, allora ci si capirà, altrimenti ognuno per la sua strada. I miei rapporti con i cerquetani sono piuttosto diversificati: di amicizia, di accettazione, di collaborazione, di ostilità. Penso sia normale, alcune persone le conosco da più tempo, altre quasi per niente, ma non dipende solo da questo, credo: ci sono anche differenze fra le persone.Ognuno ha il diritto di essere come crede  ma apprezzo molto le persone che sanno riconoscere e capire le intenzioni e le motivazioni senza pregiudizi, penso sia una virtù e se continuo a credere in questo progetto lo devo molto alle famiglie che mi hanno sempre sostenuto. Mi risulta piuttosto incomprensibile invece come persone che non mi conoscono possano avere opinioni negative su di me. E poi c’è da dire che io mi sono avvicinato a Cerqueto perché ho iniziato a lavorare su un Archivio, quello di Jobbi, e non sulla comunità, che è venuta dopo. Per diversi anni ho fatto ricerche sui materiali ma non ero ancora entrato in contatto con Cerqueto, se non con una parte del paese che conoscevo per altre ragioni, legate alla mia attività musicale. Spero comunque che un giorno questa fiducia possa esserci con tutto il paese, perché non vedo motivi per cui non debba essere così. In ogni modo quando due entità, diciamo così, entrano in contatto, c’è bisogno di progressivi assestamenti, e penso sia così anche in questo caso. Credo anche che certe critiche rivoltemi dai cerquetani siano state molto utili per capirsi meglio: nel momento in cui si propone un progetto così coinvolgente ad una comunità penso si debba essere pronti a ricevere osservazioni, perplessità, sospetti, risentimenti, e a risolvere le incomprensioni per trovare degli assetti chiari e soddisfacenti per tutti, nel rispetto reciproco.

  • Fino a che punto l’antropologo deve accompagnare la comunità a svilupparsi nella propria crescita, mettendo in atto tutte le strategie possibili, fornendo adeguati strumenti?

Dipende dal livello di coinvolgimento che ottiene o che desidera raggiungere, e anche dal tipo di ricerca che conduce. In genere vivere a stretto contatto con una comunità porta naturalmente a un certo grado di coinvolgimento, ma non è sempre così, né sempre è necessario. A volte anzi può anche essere dannoso, perché è sempre molto delicato relazionarsi ad una società particolare, piccola o grande che sia, che ha i suoi meccanismi, i suoi equilibri o squilibri. In un certo senso a volte non se ne ha neppure il diritto, dipende se questo diritto viene concesso in qualche modo, e riconosciuto, dagli stessi membri di quella comunità, se in qualche modo si riconosce al ricercatore una forma di autorità, o di possibile ruolo di consiglio, o di punto di riferimento per alcune cose. Nel caso diCerquetopenso sia importante e credo sia un percorso reciproco, nel quale ci si accompagna a vicenda, ciascuno per quelle che sono le sue conoscenze e il suo ruolo. In particolare il discorso è delicato quando si parla di patrimonio demoetnoantropologico, che è riconosciuto dallo stesso Ministero come parte dei Beni Culturali, e dunque di pertinenza di specialisti; ma in tal caso ci si trova di fronte ad una situazione inedita, nella quale i depositari di quello stesso patrimonio sono persone viventi o vicine alle generazioni che l’anno posseduto e usato, e dunque reclamano giustamente diritti e pertinenze. Prima di tutto il cosiddetto patrimonio culturale demoentonatropologico è della comunità e degli individui che lo esprimono; è importante però riconoscere, quando ne vale la pena, un ruolo a degli specialisti, perché possono essere un punto di riferimento prezioso. Anche gli edifici storici, o i siti archeologici, o le chiese, pur essendo in qualche modo parte di una comunità, non vengono restaurati o trattati da chiunque ma da specialisti. Lasciamo stare il fatto che spesso fanno dei seri danni, ma il principio in sé non è sbagliato; e comunque penso che l’interazione e il sostegno reciproco dell’uso, della conservazione e nella gestione del patrimonio, in una reale alleanza fra comunità e specialisti, sia davvero la strada risolutiva in molti casi.

  • Non pensi che un certo spirito di autoconservazione per i cerquetani sia legittimo?

Entro certi limiti si. Ma l’autoconservazione quando si è in un paese di 70 abitanti in continua decrescita rischia di diventare un suicidio. Anche perché, francamente, credo che le minacce siano ben altre, e siano costituite dal disinteresse politico, dalle scelte sbagliate fatte nell’ultimo 60ennio, dalla mancanza di unione, di condivisione, dai limiti oggettivi che questo territorio impone, dalla difficoltà di trovare risorse. Quello che stiamo provando a costruire va esattamente nella direzione opposta, dunque mi sembra che al contrario sia necessaria una progressiva apertura verso l’esterno, stando certamente attenti. E poi bisogna anche vedere come e cosa si autoconserva, se si hanno i mezzi, il tempo, le disponibilità. Quanti vecchi sono morti a Cerqueto anche solo in questi tre anni in cui si cerca una via di collaborazione reale e produttiva? Tanti, e ognuno si è portato con se un mondo che forse si poteva in qualche modo testimoniare, oltre che attraverso il ricordo di chi li ha conosciuti, anche con mezzi diversi, affinché tutti potessero conoscere l’esistenza di queste persone, e trarne insegnamenti. Il museo potrebbe essere uno straordinario veicolo di questi messaggi, ma in un museo ci vogliono anche immagini, voci, e purtroppo di tante di queste persone non sono state raccolte.

  • Che cosa è lo sviluppo sociale?

Penso sia un modo armonioso di crescere assieme. C’è molto da imparare, come gruppo sociale. In genere riscontro in tutti i paesi un eccesso di litigiosità, di gelosie, di invidie, di rivalità, di competizioni che fanno solo dei danni enormi. D’altra parte siamo in genere un Paese diviso, perso in piccole storielle che non producono nulla di positivo, e la situazione locale riflette le vicende nazionali e credo sia anche un’eredità storica della quale dovremmo finalmente liberarci, per un reale progresso civile, sociale, culturale. Ma queste cose Jobbi le diceva già 40 anni fa.

  • Quando si parla di territorio, di sviluppo del territorio non credi che sia fondamentale uno sviluppo autonomo dello stesso dove chiunque si deve proporre non come protagonista ma come attore dello sviluppo?

Qui non capisco bene la domanda. Penso si intenda che il territorio debba essere protagonista e non semplice attore, diretto da altri. Torniamo sempre agli stessi punti chiave, molto importanti. C’è bisogno credo dell’interazione per uscire dall’isolamento, e di riconoscere che i ruoli non sono in competizione ma che si completano a vicenda, e possono costituire assieme un vero potenziale. Altrimenti potrei rispondere: bene, allora che il territorio si sviluppi autonomamente! Ma non capirei il perché di questa scelta, visto che finora si è rivelata in buona parte inefficace, o dai deboli effetti, se oggi stiamo qui a parlare dell’abbandono della montagna e della fine dei paesi.

  • In relazione alla nascente Fondazione dagli obiettivi sicuramente entusiasmanti,  quali garanzie ti senti di dare alla comunità cerquetana per assicurare un reale e non solo teorico sviluppo del territorio, sociale, culturale e economico?

L’unica garanzia che posso dare è quella del mio entusiasmo e della mia volontà di credere in tutto questo, oltre che della mia serietà come persona e come ricercatore. Se così non fosse non sarei ancora qui e mi sarei presto sottratto. Ma non è da me, e in quello che è venuto fuori in questi anni io ci credo molto, ed è in un certo senso un sogno per me. Lavorare stabilmente a contatto con una comunità, condividendo un grande progetto per il futuro e un grande rispetto per il passato, assieme alle persone, alle famiglie, che questo passato hanno contribuito a determinare, e che sono la base per l’avvenire. È anche una sfida: lavorare in un posto dove pochissimi hanno non tanto il coraggio, ma la volontà reale di operare. Lavorare con i vuoti, apparenti, con dei luoghi a rischio, con delle comunità che vedono davanti a sé la fine ma che non si arrendono. Cerqueto è un luogo ideale per tutto questo, per la resistenza e l’attaccamento alla sua storia e alla sua memoria, e per l’energia e i valori che è in grado di produrre, se si unisce attorno a questi obiettivi.

  • Che ne pensi dell’affermazione di Hugues De Varine, tra i protagonisti della nuova museologia, da te molto stimato: “La natura e la cultura sono vive quando appartengono a una popolazione e ne costituiscono il patrimonio. Muoiono molto rapidamente quando divengono oggetto di appropriazione e di codifica da parte di specialisti esterni alla popolazione stessa”.

Un patrimonio muore quando non c’è più nessuno che lo porta avanti, che lo vive. Se una popolazione è numerosa, viva, attiva, non c’è proprio nessun rischio di appropriazione da parte di nessuno. De Varine è una persona molto esperta che ha maturato le sue riflessioni sul campo, attraverso un lavoro di vero specialista ma in una reale interazione con le situazioni che ha incontrato, e non ponendosi in un atteggiamento di potere o di superiorità. De Varine, di fatto, ha prodotto alcuni tra i più interessanti e riusciti progetti di sviluppo locale partecipato, in cui interagiscono specialisti e popolazioni. Ma questi progetti in genere non si fanno dove le cose vanno bene, ma dove ci sono delle difficoltà, dei problemi, dei grandi rischi, e dove appunto il rischio di morte del patrimonio dipende dal suo abbandono, dalle situazioni oggettive in cui si trova per cause storiche, economiche, naturali. Credo sia questo il caso di Cerqueto, altrimenti, se tutto andasse bene e a gonfie vele, forse io neppure sarei qui o verrei semplicemente come fruitore.

  • Vuoi aggiungere qualche altra cosa?

Aggiungo un grande ringraziamento a Don Nicola, per la sua fiducia e per tutto quello che ho avuto modo di conoscere e imparare in questi anni studiando il suo archivio e le attività che ha portato avanti in montagna. E a Don Filippo Lanci, per avermi fatto conoscere da vicino la comunità di Cerqueto e tanta parte della sua vita in montagna. Senza queste due persone credo che ora sarei altrove.

Adina Di Cesare



Lascia un commento