Lino Bianchini tra gli schiavi di Hitler

Non ci furono soltanto la Shoah e i partigiani, Cefalonia e Auschwitz durante la seconda guerra mondiale, ma tante altre resistenze, con e senza armi, come quella dei lavoratori “volontari” in Germania e tante altre storie ignorate.

1944 – 1945   RheineWestfalen, Germania

A Rheine finì Lino Bianchini, classe 1925, tra il 4 giugno del 44 e il 3 aprile del 45 come collaboratore forzato dei tedeschi. Anche lui aveva “scelto” il lavoro in  Germania per non farsi arruolare e  sottrarsi alla disponibilità di Hitler e Mussolini. La scelta della prigionia di questi giovani militari non fu certo una scelta facile e il NO all’adesione a favore di Hitler e  Mussolini fu altrettanto difficile.  A quella generazione di italiani era stato insegnato per vent’anni a dire “sissignore”. E poi si sentivano  degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sbando delle forze armate dopo l’8 settembre, il tradimento del  re e di Badoglio. Ciò nonostante, sbandati e delusi,   preferirono la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler e Mussolini. Una scelta per la patria senza maiuscole, una resistenza senza armi.

Dall’ ottobre 1943, da quando Lino aveva ricevuto il  mandato di arresto perché renitente alla leva, erano trascorsi diversi mesi. La morsa della paura per la cattura sembrava ormai allentata grazie anche ad un inverno particolarmente nevoso, che aveva isolato Cerqueto dall’inizio di gennaio fino a marzo.  Mimetizzato come lavoratore in una falegnameria a Teramo, fu individuato dai tedeschi nonostante la  dispensa come lavoratore. Con suo grande dolore fu immediatamente licenziato.  Era a Cerqueto quando seppe della chiamata in caserma tramite Don Ruggero Iannucci, parroco di Cerqueto, il quale si attivò subito per fargli avere un certificato medico. Dopo dieci giorni si doveva costituire altrimenti sarebbe stato arrestato senza via di scampo. Era stato denunciato per ben quattro volte al tribunale militare!

Era il 10 maggio 1944 quando Lino si presentò in caserma insieme ad altri due cerquetani, Lino Di Matteo e Annunzio Marconi e tutti e tre furono trasportati all’Aquila, alle Casermette di Coppito.  Furono consegnati alle truppe tedesche di occupazione prima di attuare  un piano di fuga. Dopo qualche giorno furono trasferiti a Perugia, centro di smistamento e di selezione. Insieme a tanti  altri giovani furono  attentamente visitati  e ,  dopo essere stati interpellati circa la propria occupazione, fu fatto firmare loro un finto libretto in cui “accettavano”  il lavoro in Germania. Insieme ad  altri “carcerati”, rinchiusi all’interno di carri bestiame, furono trasportati a Sesto Fiorentino, poi a Verona e in seguito in Germania, prima a  Egebek, a solo otto chilometri dalla Danimarca  e poi a Müster. Le tappe si prolungavano per quattro, cinque giorni ma sempre in regime di carcere, senza un minimo di libertà personale. A Müster vennero di nuovo visitati, vaccinati e furono divisi in base al mestiere dichiarato. Così le strade dei tre cerquetani si divisero, Lino Bianchini come  meccanico insieme ad altre nove persone fu trasportato a Rheine mentre Lino di Matteo e Annunzio furono trasferiti altrove perché si erano dichiarati  studenti.

Sulle divise fu apposto il  marchio IMI, acronimo di ”Italienischen  Militär Internierten” (Internati Militari Italiani), una qualifica non prevista negli stati belligeranti dalla Convenzione di Ginevra (1929) sui prigionieri di guerra! I prigionieri italiani furono così declassati  con una formula inventata e arbitraria, quella degli “internati militari”, non potendo definire “prigionieri di guerra” i militari di un paese alleato. Il privilegio di essere internato e non prigioniero divenne in  realtà un danno considerevole, sottraendo gli IMI alla tutela della Croce Rossa internazionale e al controllo sull’applicazione della convenzione di Ginevra. Il fenomeno del rastrellamento, raggiunse livelli impressionanti e, nel 1944, in Germania si ritrovarono a lavorare ben 680 mila  italiani. I molteplici cambiamenti del loro status nel breve volgere di un anno e mezzo – da prigionieri di guerra dopo l’armistizio a internati militari dal 20 settembre ‘43, da internati a lavoratori civili dall’autunno ’44, furono determinati da una duplice necessità da parte della Germania: quella primaria di utilizzare i militari italiani come forza lavoro, reclutare per il proprio fabbisogno produttivo interno lavoratori in tutti i territori occupati e quella secondaria di non depotenziare la sovranità e il potenziale di collaborazione del governo di Mussolini.

Le tutele umanitarie dei vinti sono recenti,  per migliaia di anni le guerre hanno razziato schiavi, come forze di lavoro a basso costo, da sfruttare e mantenere finché utili. Nel campo di aviazione di Rheine si viveva in condizioni estremamente dure di vita e di lavoro, si stava in misere baracche in un regime di prigionia. Si svolgeva il servizio chiamato servizio di pronto intervento, bereitschaft, quando si cappottavano gli aerei bisognava correre per liberare il campo.  Altrimenti si faceva ordinaria manutenzione. Si rischiava la vita per qualche patata. “C’era un vagone di un treno fermo davanti alla mia baracca, pieno di patate, con altri due compagni abbiamo fatto un primo giro e messo da parte un pò di patate. Il secondo giro non ci riuscì, un tedesco ci sorprese e mi puntò addosso la pistola, mi risparmiò per poco, dopo aver riconsegnato le poche patate” “ Da mangiare ci davano una brodaglia con qualche buccia di patata. Per ritirare il piatto ci fornivano dei bollini. A volte mi capitava di poter prendere tre piatti ma era pur sempre brodaglia. A volte c’era qualche pisello e nient’altro. Il pane non esisteva. Il primo settembre  abbiamo rubato un po’ di pane, commettendo un gravissimo errore,  abbiamo rischiato molto, saltammo il confine del campo, ma siamo riusciti a prendere due bei pezzi di pane.  Così festeggiai Sant’Egidio con grande soddisfazione”. I lunghi mesi trascorsi a Rheine furono mesi di gravi sofferenze, provocate soprattutto dalla fame, dalle malattie ma anche dalla pesante situazione di disagio psicologico. Neanche un tenue filo fra i prigionieri e le loro famiglie, fu quasi  un black-out totale, solo una volta venne fornito loro una cartolina per scrivere alle famiglie. Si mangiava una volta al giorno quando c’era, ma non sempre. Nell’inverno 1944-1945 il gelo, la mancanza di abiti adeguati, di coperte, di cibo, rese penosissime le condizioni degli internati, ai limiti della sopravvivenza, sotto il rischio crescente dei bombardamenti degli alleati, che mettevano in serio pericolo la loro vita. I sintomi del crollo ormai imminente, d’altro canto, alimentavano la speranza che la loro prigionia sarebbe presto finita.

3 Aprile 1945, due giorni dopo la Santa Pasqua. Rombi di motori, cielo buio per la scia che le fortezze volanti emettevano per non farsi colpire dalla contraerea. Cadevano bombe.  Dovevano lasciare il campo e attraversare con una piccola barchetta il fiume Ems. Con una damigiana di cognac e un’ondata di canti i tedeschi incitavano alla traversata. Lino per paura indietreggiò insieme a qualche altro compagno!

Fu così che gli inglesi li presero dopo breve tempo in un vicina osteria e li portarono in Belgio. Senza sapere dove precisamente, senza riparo, in mezzo a dei tombini. Furono giorni difficilissimi, di degrado e abbrutimento. Si rimpiangeva la prigionia in Germania, lì almeno si stava al riparo. Dopo una quindicina di giorni di pioggia ininterrotta le persone cominciarono ad ammalarsi, non si mangiava quasi mai e si era in preda a gravi problemi intestinali. Furono allora trasferiti a Ostenda, nelle vicinanze di Aversa, in una fabbrica di mattoni, piena di polvere ma almeno al coperto. “ A Ostenda la situazione era migliore. Stavano per partire dal porto di Ostenda quando una bomba grandissima ci bloccò e fu una fortuna. Diversamente saremmo andati in Inghilterra e avremmo allungato di qualche anno il rientro a casa. Nonostante tutto il pensiero continuo era la casa, i familiari. Non ne avevo più notizia. Il mio paese era stato bombardato?”

6 agosto 1945 – Il giorno del bombardamento atomico di Hiroshima  fu il giorno del rientro a casa. Una serie di coincidenze fortuite  avevano permesso a Lino il rientro anticipato.  Non ci fu nessuna festa, troppi  compagni mancavano all’appello a Cerqueto e c’era poco da festeggiare in un clima di tristezza e di paura per la sorte di altri giovani!!

6 giugno 2001 – Viene presentata dal nostro reduce della deportazione domanda di indennizzo in seguito all’istituzione da parte del governo tedesco di dieci mila  miliardi di lire per risarcire gli schiavi di Hitler.

1 luglio 2004–  Lino riceve da parte dell’OIM (International Organization for Migration)  una lettera di rigetto della domanda per lavoro in condizioni di schiavitù ai sensi della legge tedesca che istituì la Fondazione, ”Remembrance, Responsability, Future”. Solamente gli ex-lavoratori forzati che erano stati sottoposti a particolari forme di discriminazione dal sistema legislativo nazista, come gli ebrei, i sinti, i rom e i lavoratori forzati di origine slava, avevano diritto all’indennizzo.   Tranne poche eccezioni, le condizioni di vita e di lavoro estremamente dure  dei civili italiani non sono state ritenute sufficienti per il risarcimento.

Adina Di Cesare

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